Tutte le contraddizioni del Giappone continuista
venerdì 5 novembre 2021

Nessuna sorpresa dalle urne – ancora una volta semivuote – giapponesi. Ma anche se l’attuale coalizione, pur perdendo qualche seggio, ha mantenuto la maggioranza assoluta, a nessuno è venuto in mente di festeggiare. Anzi. A differenza di quanto in genere avviene da noi, dove il giorno dopo le elezioni tutti dichiarano di aver vinto, qui sembra che abbiano perso un po’ tutti. A cominciare dalla 'democrazia', come oramai si dice e si scrive anche qui. Nonostante il tasso di affluenza che nel 2014 aveva toccato il minimo storico del 52,7%, abbia in qualche modo 'tenuto', recuperando quasi tre punti (al 55,6%) l’astensionismo giovanile è infatti ulteriormente aumentato. Oramai siamo a meno del 30% di partecipazione: su tre giovani tra i 20 e i 24 anni, solo uno è andato a votare.

«Difficile immaginare un cambiamento a breve – scrive desolato l’'Asahi Shimbun' – se la politica è così lontana dalla gente, e soprattutto dai giovani». Difficile, innanzitutto, che il Giappone torni ad avere quel ruolo internazionale che si era più che legittimamente conquistato nell’immediato dopoguerra novecentesco e che dopo il «ventennio perduto» (diventato oramai trentennio...) sembrava essere pronto a riprendersi. La lunga stabilità politica garantita dall’ex premier Shinzo Abe – di cui, prima, l’immediato successore Yasuhide Suga e, ora, l’appena eletto Fumio Kishida sono fedeli interpreti – non è bastata a far ripartire il Paese. Né dal punto di vista dell’immagine e del ruolo internazionale (e in questo una grave responsabilità l’hanno avuta le piroette di Trump, disorientanti per tutti gli alleati asiatici degli Usa, primo fra tutti proprio il Giappone) né per quanto riguarda la crisi economica e sociale interna.

Che la pandemia – tutt’altro che risolta – continua a peggiorare. In tutto questo, la conferma, salvo qualche piccolo – ma significativo – 'aggiustamento' sul numero dei seggi, dell’assetto politico non aiuterà il premier Kishida (che per vincere le elezioni aveva strizzato l’occhio alla destra ultranazionalista) a realizzare le sue promesse elettorali. Anzi. Il fatto che l’opposizione, nonostante l’ennesimo, maldestro e semiclandestino tentativo di unire le forze in alcuni collegi uninominali (una sorta di 'Ulivo a mandorla' che per la prima volta coinvolgeva anche i comunisti) si sia ulteriormente indebolita rafforza le varie correnti del partito di maggioranza. Che non perderanno occasione per dare filo da torcere alla 'colomba' Kishida. Soprattutto – e questo potrebbe essere un bene – per quanto riguarda l’impegno a raddoppiare le spese militari, passando dallo 'storico' 1% del Pnl al 2%, da 50 a 100 miliardi di dollari.

Con il rafforzamento del Komei, il partito 'buddista' che oramai da molti anni governa assieme ai liberaldemocratici, nettamente contrario a ogni ritocco della Costituzione e all’aumento delle spese militari, sarà difficile per Kishida mantenere un impegno assunto senza troppa convinzione. Come difficile sarà perseguire, vista la sconfitta elettorale (ha perso il suo seggio) del suo più convinto sostenitore, l’ex segretario del partito Akira Amari, il rilancio del nucleare, come più volte annunciato, ma mai realizzato, dai suoi predecessori. Resta la speranza che il 'nuovo' (in realtà sembra che verrà confermato in blocco) governo giapponese – guidato da un diplomatico di lungo corso (Kishida è stato per molti ani ministro degli Esteri) riscopra il fascino del dialogo e della paziente tessitura, anziché unirsi al recente, sempre più assordante ma sperabilmente innocuo, coro dei guerrafondai.

E che alla crescente 'assertività' cinese e alle nuove minacce nordcoreane il Giappone opponga la politica del confronto. Perché è vero che l’86% del popolo giapponese – secondo un recente sondaggio – percepisce oramai la Cina come una minaccia. Ma è anche vero che oltre il 90% non vuole un’escalation militare e una ripresa della corsa al riarmo che potrebbe sfociare – per alcuni dei suoi sostenitori – nell’entrata del Giappone nel club nucleare. Senza pensare al fatto che le economie di Cina, Giappone e Taiwan (di cui tanto si parla in questi giorni, come de davvero fossimo alla vigilia di un conflitto armato) sono talmente interdipendenti che è interesse comune evitare ogni ulteriore inasprimento delle relazioni. «Un conto è quello che il Giappone sa di poter fare – spiega il politologo Yoichiro Sato – un conto è quello che farà». Speriamo abbia ragione.

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