mercoledì 13 maggio 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Gentile direttore,
sono molto meravigliato che delle persone istruite e di una certa responsabilità pensino, progettino e dicano sul serio che bisogna “danneggiare” o “distruggere” i barconi dei trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo (e altrove), anche se nessuno sembra ritenere che sia l’unica soluzione. Anche a me era venuta questa idea, come una reazione immediata, istintiva a un fenomeno vergognoso e certamente da arrestare. Però, in pochi secondi, ho fatto due semplici considerazioni: la prima è che “fermare i barconi” è  la cosa che viene in mente a chi vede arrivare i barconi e non si rende conto che, in effetti, il problema non sono i barconi. Mi spiego meglio: immaginiamo che ci siano molti suicidi di persone che si buttano dalla finestra, per reagire basterebbe forse costruire palazzi senza finestre? Distruggere i barconi – e quanti, poi, tutti? – servirebbe solo ad aumentare i prezzi dei viaggi e a sviluppare la fantasia dei trafficanti. Perché la seconda considerazione è che le migrazioni e lo sciacallaggio dei trafficanti non dipendono dalla disponibilità di barconi, ma dalla disperata necessità di salvare la pelle e dalla coscienza perversa di chi approfitta degli esseri umani in queste condizioni. Io direi che, se proprio dobbiamo “distruggere”, potremmo provare a distruggere le barriere ideologiche, economico/finanziare, sociali che abbiamo imposto nei secoli ai popoli delle migrazioni forzate. Se i popoli africani fossero stati liberi di svilupparsi autonomamente (cioè secondo le proprie risorse e la propria cultura) e in pace, ora staremmo parlando di barconi in partenza da Lampedusa – o magari da Venezia – per la Libia, la Tunisia e l’Egitto.
padre Sergio Cerracchio sj - Napoli
Le immagini che lei ha scelto, caro padre Cerracchio, sono efficaci e suggestive. Le riprendo e le continuo a mio modo. È vero: c’è chi vorrebbe una casa–mondo non soltanto senza finestre, ma anche senza porte e con piani (e stanze dello stesso piano) che non comunicano tra loro. Una casa di soli “muri” contrapposti, costruiti di duro mattone e di durissimo sospetto. Una casa–mondo che si fa casa–caserma, e dalla quale si muove solo la guerra, e mai davvero la pace che è senso e mèta di cammini di liberazione, di giustizia e – per noi cristiani – di comunione. Questa triste casa–mondo purtroppo già esiste: ce ne rendiamo conto ogni volta che cerchiamo di rompere le regole che la (s)governano e di far prevalere le regole che possono portarci a smontare le «barriere» che lei individua (e dunque anche le logiche feroci dei signori della guerra, degli sciacalli che si arricchiscono sulla pelle dei poveri, dei padroni della finanza irresponsabile). Ma questa constatazione, caro padre, non ci demotiva, tutt’altro. Ci sprona a tenere viva e a rendere abitabile l’idea e la realtà di una casa–mondo diversa. E a mantenerne spalancate le finestre. Considero un pungolo altrettanto forte l’immagine che lei propone delle possibili “rotte rovesciate” dei barconi dei profughi in un altrettanto possibile Mediterraneo capovolto, dove la riva desiderata diventerebbe quella meridionale, quella nordafricana. Non è un’idea stravagante. C’è stato in effetti un tempo – non molto lontano dal nostro – in cui gli italiani migravano in Africa del Nord, e non solo nella colonia libica appena conquistata, ma in Tunisia, e in Egitto... Eravamo noi, erano i nostri nonni e bisnonni, a lasciare la terra natia per ricominciare in un altrove da sognare comunque come un “oltre”: oltremare, oltreoceano, oltralpe... Quella migrazione per forza (per dura fame di pane, per altrettanto dura fame di libertà e per amore di futuro) s’interruppe – nel secondo dopoguerra del Novecento – non solamente per l’avvio di una spettacolare crescita sul nostro lato del mare, ma per lo squilibrio contemporaneamente realizzato o aggravato sull’altra sponda, a nord e a sud del Sahara, e questo – come lei giustamente sottolinea – per le tante occasioni di sviluppo vanificate in terra d’Africa da scelte e giochi delle superpotenze, delle nazioni ex coloniali e di governanti locali ciechi e incapaci, o cinici ed egoisti, o anche tutte queste cose insieme. Penso che sia questo il meccanismo maligno, ancora in pieno e sferragliante funzionamento, che va “bombardato” e distrutto. Solo così si ferma il “popolo dei barconi”, perché finché ci saranno persone in fuga dall’ingiustizia e dalla violenza, sempre nuovi – anzi vecchi, vecchissimi – barconi continueranno a essere messi in mare... Certo, bisogna rendere difficili, anzi impossibili, gli affari ai mercanti di esseri umani. Ma non credo che, per riuscirci, servano prima di tutto – e siano sufficienti – le armi. Ci vogliono idee buone, concretezza, autentico e reciproco rispetto, capacità di coinvolgere – come ha ricordato il presidente Mattarella – il popolo libico e i suoi capi. È bene ricordarlo mentre l’Onu si sta orientando a legittimare possibili “azioni di polizia internazionale”. Un concetto in cui, oggi, rinchiudiamo e nobilitiamo gli atti di forza riconosciuti come inevitabili e proporzionati, “giusti” relativamente al male che si deve scongiurare. Ma proprio in momenti come questo, è importante tenere a mente che sono specialmente le bombe a generare la disperazione del “popolo dei barconi”, e che è una tragica illusione pensare che altre bombe possano quasi automaticamente accendere la speranza. Ogni guerra, anche quella più circoscritta e tesa a difendere l’innocente minacciato, anche quella condotta per fermare un aggressore, genera altra guerra, porta morte e distruzione, fa vittime innocenti e con inesorabile e spietata regolarità trasforma gli inermi e gli incolpevoli in “scudi umani”. Accadrà ancora. Ogni guerra, piccola o grande, ci avvelena e ci corrompe, perché produce lutti, odi e risentimenti, e li moltiplica. Un prezzo che a volte diventa inevitabile pagare per questa nostra umanità mai sazia di errori, ma che non dovrebbe accendere entusiasmi e neppure fanfare, ma totale e dolente solidarietà verso gli uomini e le donne, in divisa e no, che ne portano il peso. Grazie, caro padre Sergio, per avermi portato a scrivere di nuovo su tutto questo. E per avermi indotto a ricordare, ancora una volta, che c’è una “giustizia” da realizzare che viene prima di ogni “legalità” che si dichiara di voler perseguire, e che la giudica. C’è una giustizia che giudica, nella coscienza stessa dell’umanità, ogni azione e ogni inerzia di persone, gruppi e popoli. Che condanna i tagliagole e i nuovi negrieri con i loro complici. E non assolve preventivamente la comunità delle nazioni che si riconosce nell’Onu.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI