Scosse chiare da fermare
martedì 27 settembre 2022

Mai vista una notte elettorale italiana così povera di presenze e di parole dei leader come quella tra il 25 e il 26 settembre 2022. In quelle prime e insonni ore ci hanno messo la faccia, ed espressioni impegnative e pensose, solo Giorgia Meloni la vittoriosa e Giuseppe Conte il redivivo. Gli altri hanno meditato e tutt’al più cinguettato sui social, mandando in campo i vice o proprio nessuno. E in fondo si capisce, perché mai come stavolta vincitori e vinti sono apparsi incontestabilmente chiari.

Il vituperato (anche a ragione) Rosatellum ha compiuto un miracolo, anzi tre, e ha stabilito un record. La legge elettorale vigente, infatti, ci ha costretti tutti, per la seconda volta, a mettere solo crocette sulle schede elettorali senza poter preferire davvero il nome degli eletti e questo ha purtroppo rafforzato l’insidiosa spinta al non-voto. Una condizione mortificante: che bisognerà saper cambiare, restituendo il diritto essenziale di piena scelta a chi va alle urne. Un record amarissimo: l’astensione è infatti cresciuta di circa dieci punti, sino a più del 36%, livello mai registrato alle elezioni politiche.

Oltre 18 milioni di italiani e italiane hanno deciso per insoddisfazione, disgusto o rassegnazione di non partecipare al rito fondamentale per ogni democrazia.

E tuttavia (primo miracolo) queste stesse regole non hanno solo zittito il coro dell’«abbiamo preso lo zero-virgolaqualcosa in più» rispetto al voto precedente. Stavolta (secondo miracolo) hanno pure trasformato in robusta maggioranza nei due rami del Parlamento quella che nel Paese è una grande, grossa e non compattissima minoranza. Risultato frutto non di intelligenze speciali, ma di contingenze e calcoli precisi, all’ombra di criteri introdotti per penalizzare chi non si allea. E questo conferma (terzo miracolo) che anche in politica, la matematica non è un’opinione, per cui se uno schieramento potenziale (il centrosinistra) si divide in tre come la Gallia di Cesare – Pd e alleati, Cinque Stelle e cosiddetto Terzo Polo –, l’altro schieramento (il centrodestra) stravince pur restando dov’era. Cioè, come cinque anni fa, grossomodo al 44%. Fermo, ma indaffarato in uno spettacolare travaso di voti dalle dimezzate Lega (ex Nord) e Forza Italia verso Fratelli d’Italia, i cui consensi si sono più che quintuplicati.

Parlare di destracentro, a questo punto, non è una forzatura, ma più che mai una constatazione e un inchinarsi al dato di realtà rivendicato con forza da colei che ha reinventato dalle ceneri del partito quasi unico del centrodestra, il vecchio Pdl, un 'partito blu' postmissino, nazionalsovranista e neoconservatore.

Una destra moderna, ostinata e ostentata, diventata di colpo egemone nella coalizione creata e a lungo guidata da Silvio Berlusconi e, in seguito, capitanata da Matteo Salvini. Giorgia Meloni è una quarantenne che fa politica da trent’anni, non una rottamatrice, non un’antipolitica. È stata vicepresidente della Camera e ministra, e quando dice di sentirsi chiamata a «responsabilità» non parla a vanvera. Ma è anche portatrice di affilate visioni nazionaliste e presidenzialiste.E le ha proiettate, quasi sferrate, con decisione sia nel lento e faticoso cantiere federalista europeo sia, e persino di più, nel delicato «cambiamento d’epoca» in cui sta entrando la nostra Repubblica nata dalla Resistenza. Difficile credere, per tanti impossibile, che la grande rassicurazione possa essere un atlantismo diventato sinonimo della partecipazione attiva alla disastrosa deriva bellica in corso in Europa dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

Nascondersi o tacere tutto questo non sarebbe realistico. Così come non lo sarebbe ignorare la preoccupazione, il sospetto e il gelo emersi in modo anche francamente inaccettabile dalle primissime reazioni europee al successo di Fdi e, all’opposto, gli applausi scroscianti tributati da governi e partiti del fronte euroscettico e sovranista. Realistico è, invece, a sinistra, prendere atto della fine di una fase politica. La fase in cui il 'potere di coalizione' del Partito Democratico – potere, negli ultimi undici anni, esteso anche ai distinti e distanti – l’aveva consegnato a una quasi permanente vocazione governativa che s’è divorata la vocazione maggioritaria e un bel po’ di voti riparati altrove o sospinti, tra elitarismo e dirittismo, nella sacca del non-voto. Il potere di coalizione senza quello di attrazione e di interpretazione delle attese della gente semplice, produce ministri, slogan facili e relazioni difficili con pezzi importanti di opinione pubblica (cattolica e non solo), ma polverizza tanti consensi.

Una crisi seria, che porta – fatto senza precedenti, un tempo vissuto come ossessione dal Pci, uno dei grandi antenati del Pd – il primo partito della sinistra ad avere alla propria sinistra, oltre ai 'piccoli' rossoverdi di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, una formazione quasi equivalente: il dimagrito, rilanciato e sostanzialmente rifondato Movimento 5 Stelle «progressista », «proletario» e (soprattutto) «sudista» di Conte. Per di più, alla destra del Pd emergono, anche se non in modo impetuoso, i liberal (sinora 'non compassionevoli', a differenza di certi conservatori) organizzati elettoralmente da Carlo Calenda e Matteo Renzi. Un terremoto con nome e cognome: Giorgia Meloni.

Ma per governare con efficacia un’Italia ferita da povertà, pandemia, disuguaglianze territoriali, disillusioni e guerra bisognerà saper controllare e frenare le scosse, non moltiplicarle. Si capirà presto, se significa questo la «responsabilità» annunciata, invocata e dimostrata con misura verbale, anche rispetto alle prerogative del capo dello Stato, dalla vincitrice delle elezioni d’autunno.

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