Pugno di ferro, crescita e inurbamento: il voto spacca la Turchia di Erdogan
martedì 16 maggio 2023

È stato facile, e in qualche modo anche utile, raccontare la sfida presidenziale della Turchia come un derby Reis contro Gandhi, dai soprannomi che accompagnano Recep Tayyep Erdogan e Kemal Kilicdaroglu. L’esito del primo turno, però, non solo rinvia tutto al ballottaggio del 28 maggio ma ci riporta alla realtà di un Paese che vive dinamiche complesse ed è, nello stesso tempo, perno cruciale delle relazioni internazionali. Siano quelle “storiche” del Medio Oriente, quelle più recenti del Caucaso e dell’Asia Centrale, o quelle nuovissime che, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, investono l’Europa intera.

Erdogan, l’uomo che da vent’anni domina la politica turca, aveva per due volte conquistato la Presidenza al primo turno. Persino nel 2018, dopo aver fatto approvare nel 2017, con un referendum risicato, la nascita di una Repubblica presidenziale di stampo autoritario. Questa volta si è fermato sotto il 50%, e per restare in carica dovrà lottare fino all’ultimo. Da ogni punto di vista, a maggior ragione se ha goduto dei brogli cui allude l’opposizione, per lui è un ridimensionamento, se non una sconfitta. Può ancora vincere, anzi è probabile che la maggior parte dei voti di Sinan Ogan, il candidato ultranazionalista del cartello Alleanza Ancestrale che ha raccolto il 5%, finisca per confluire su di lui. Ma la fine della marcia trionfale dimostra che Erdogan ha sottovalutato la portata di certe dinamiche.

In primo piano l’economia. Il mito della crescita, diventato così assoluto da fargli bruciare cinque governatori della Banca centrale in otto anni, ha prodotto anche dati spettacolari (nel 2021 il Pil è aumentato dell’11,4%, record degli ultimi sessant’anni) ma, in un Paese che per l’energia dipende dalle importazioni, ha innescato una spirale inflazionistica che nell’autunno scorso ha generato un incremento dei prezzi fino all’80%, un attentato al tenore di vita di milioni di turchi. La crisi, e la fuga di molti dalle province verso i centri urbani in cerca di lavoro, hanno poi accelerato un fenomeno ora clamoroso: l’urbanizzazione. Il 60% dei turchi oggi vive in una decina di città, e la sola Istanbul tra poco conterà circa il 20% della popolazione totale del Paese. Non è per caso se questi centri, da Istanbul alla capitale Ankara, da Antalya a Smirne, sono amministrati da sindaci usciti dai ranghi delle opposizioni: l’inurbamento, come ci ha spesso raccontato anche Elif Shafak, l’autrice più letta in Turchia, cambia le mentalità, allenta la presa del tradizionalismo, dell’islamismo e del nazionalismo che a Erdogan ancora portano consenso nelle regioni più periferiche.

Con analogo realismo, però, vanno esaminate le possibili conseguenze di una vittoria di Kemal Kilicdaroglu, detto appunto “il Gandhi turco”. La sua longevità come capo del Partito popolare repubblicano e dell’opposizione intera è segnale di grande spessore politico, anche considerando la sua doppia “minorità” di musulmano alevita (una corrente dell’islam di derivazione sciita, da sempre legata al secolarismo kemalista) e di membro dell’etnia zaza, che rientra nel gruppo curdo. Kilicdaroglu ha promesso di allentare la presa autocratica del potere centrale, eliminare le norme più repressive in tema di libertà di parola e di stampa e rafforzare lo Stato di diritto anche attraverso l’approvazione di una nuova Costituzione, distendere i rapporti con l’Unione Europea e togliere il veto all’ingresso della Svezia nella Nato, ridurre le spese militari e aumentare quelle sociali. Un paniere di proposte che non può dispiacere alle cancellerie europee.

C’è però anche l’altro lato della medaglia. Kilicdaroglu guida una coalizione di sei partiti, che non garantiscono per il futuro la stessa unità che mostrano nell’attaccare Erdogan. Vuole ridiscutere l’accordo del 2016 sui profughi siriani, che ora stazionano nei campi in Turchia (così non arrivano in Europa) ma che lui vorrebbe rimpatriare. Idea, questa, che potrebbe agevolare un accordo da secondo turno con lo xenofobo Sinan Ogan. Kilicdaroglu, inoltre, non pensa di cambiare strategia nei confronti di Cipro e della Grecia, e tra Russia e Ucraina sceglierebbe, come Erdogan, l’equidistanza. Per finire: la sua intenzione di riaprire la quasi eterna pratica di adesione della Turchia alla Ue (avviata nel 1987) segnala uno sguardo interessato verso Ovest ma anche il desiderio di stanare Bruxelles da decenni di esitazioni. Cosa che la Ue, alle prese con la questione ucraina, forse vede più come un problema che come un’opportunità. Il primo voto, insomma, ci ha restituito tutte le tonalità di un grande e complicato Paese. Il secondo ci dirà se i turchi davvero credono alla possibilità di dipingerle in modo nuovo.

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