domenica 7 giugno 2015
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La Corte Costituzionale, motivando venerdì la recente sentenza con la quale ha abrogato i punti della legge 40 che riservavano l’accesso alla procreazione assistita alle sole coppie infertili escludendo la diagnosi preimpianto (Dpi) e la selezione degli embrioni, assegna pesi e contrappesi ai «diritti di tutti i soggetti coinvolti» diversi da quelli applicati dal legislatore e non rigettati dalla consultazione popolare di 10 anni fa. Comunque la si pensi sui diritti del figlio non ancora nato e su quelli dei suoi genitori, la denuncia di «un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco» che la Corte formula a carico delle norme ritenute illegittime non può sfuggire a un confronto in campo aperto con gli interessi «di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito», come recita il comma di apertura della legge, sul quale mai la Consulta ha espresso rilievi. Anche per quella della giustizia, come per tutte le bilance, l’equilibrio dipende da pesi e contrappesi. Un uso ragionevole della bilancia richiede che vi sia proporzione tra gli uni e gli altri. Per questo, come ha ricordato due anni fa in una conferenza a Palazzo della Consulta uno dei suoi membri, Marta Cartabia, «il principio di proporzionalità è frequentemente richiamato nella giurisprudenza costituzionale italiana unitamente al principio di ragionevolezza o, talvolta, come sinonimo di esso; anzi, in qualche occasione la Corte ha esplicitamente affermato che il principio di proporzionalità 'rappresenta una diretta espressione del generale canone di ragionevolezza'». Cosa sta sui due piatti della bilancia nel caso dell’applicazione della Dpi al ricorso alla provetta di genitori che potrebbero trasmettere ai figli una malattia genetica? Se da una parte vi è l’interesse (legittimo) dei primi a un figlio sano e il diritto (innegabile) alla tutela della salute della donna in gravidanza, sull’altro i giudici negano che si «possa trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro», in quanto – secondo l’applicazione corrente della legge 194 nei casi di anomalie o malformazioni fetali accertate attraverso la diagnosi prenatale – esso «sarebbe comunque esposto all’aborto». Attribuendo alla volontà deliberata della coppia di procreare un figlio sano una determinazione irrevocabile (la storia di non pochi casi testimonia il contrario) e sostituendo l’espressione «tutela del nascituro» (riferita all’embrione impiantato e al feto, nel contesto della legge 194) a «tutela del concepito», più precisa nel caso della procreazione assistita, la sentenza non riconosce un «bilanciamento degli interessi in gioco» e, di conseguenza, rinviene «un insuperabile aspetto di irragionevolezza nell’indiscriminato divieto» di accesso alla provetta. Perché invece ci sembra 'irragionevole' una siffatta ponderazione dei diritti e degli interessi in gioco, e non invece quanto previsto dalla legge 40? Una risposta condivisibile la si rinviene indirettamente proprio nel già citato intervento del giudice Cartabia, quando in un altro contesto spiegò che «per quanto difficile sia afferrare ogni possibile risvolto del principio di ragionevolezza, ciò non di meno si può affermare che esso contiene un invito al giudice a spalancare la ragione sulla realtà regolata dal diritto, liberandosi dalle limitazioni della ragione astratta e uscendo dalle anguste strettoie della concezione 'pura' del diritto che tuttora esplica una grande influenza sulla cultura giuridica». Il nodo da sciogliere è la realtà normata, non il principio regolatore. E la realtà attuale della Dpi è che viene eseguita in funzione della (e seguita dalla) selezione degli embrioni, ossia dallo 'scarto' di quelli 'difettosi' e dal trasferimento in utero dei sani. Questa inesorabile realtà (e non solo la possibilità di essere «comunque esposto all’aborto», di cui parla la Consulta) è quanto attende in media un concepito su due (nel caso delle malattie a trasmissione dominante) e uno su quattro (per le recessive). La vita umana non è un bene quantitativo, perché ogni donna o uomo è un bene in se stesso, sempre. Ma se volessimo fare i conti con una ragione giuridica meramente 'calcolante', da che parte si sposterebbe l’ago della bilancia nel misurare pro e contro della selezione di embrioni sani? Infine, una nota sull’invito dei giudici al legislatore affinché preveda l’individuazione – si presume da parte di una commissione di esperti – «delle patologie che possano giustificare l’accesso» alla procreazione assistita. Una considerazione che va nella direzione giusta del rispetto delle prerogative e competenze del Parlamento. Ma se l’esclusione delle coppie fertili ha innescato una serie di ricorsi per violazione del 'diritto al figlio sano' e alla 'autodeterminazione nella scelta procreativa', nel cui merito è entrata la sentenza della Corte, come reagirebbero i genitori portatori di malattie non incluse negli elenchi stilati dalla commissione? Il sospetto di venire esclusi su basi biologiche (il tipo di difetto genetico) da un’opportunità sanitaria offerta ad altre coppie sarebbe dietro l’angolo.
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