La moglie di un uomo in divisa: «Ma a Piacenza c'ero anch'io»
sabato 17 febbraio 2018

Caro direttore,
a Piacenza sabato 10 febbraio c’ero anch’io, e con me tutte le madri, le mogli, le fidanzate e i figli che con amore, ma soprattutto con dedizione, forza e coraggio riescono a stare al fianco di un uomo che indossa una divisa. Io c’ero e con me c’erano tutte quelle donne che, loro malgrado, sono state costrette ad accettare un lavoro che non hanno scelto e che spesso le condiziona. Io sono una di loro: sono la moglie di un poliziotto. Sono una di quelle donne che hanno imparato a dividere il proprio compagno con la Polizia di Stato; sono una di quelle donne che hanno dovuto comprendere, loro malgrado, cosa significhi vivere in balia di turni e di esigenze di servizio. E non solo. Credo che soltanto chi vive certe situazioni, possa poi capirle in pieno. Solo noi sappiamo cosa voglia dire salutare quasi ogni giorno un pezzo della propria famiglia, augurandosi che torni indenne e vivo dal servizio che gli è stato assegnato. Solo noi sappiamo cosa significhi, a volte, sentirsi messe in secondo piano rispetto a una professione che richiede abnegazione e sacrificio. Sabato, mio marito era in servizio a Piacenza e con la sua squadra ha affrontato, con coraggio e sangue freddo, gli stessi manifestanti che da lì a poco hanno assalito e malmenato un Carabiniere. In questi giorni, mi sono chiesta spesso cosa sarebbe successo se mio marito non fosse così innamorato del suo lavoro, se non si fidasse dei suoi ragazzi così profondamente da considerarli pezzi leali della nostra famiglia, ma soprattutto se non fosse così pacato nelle sue reazioni.
Ho guardato le immagini che ritraevano una decina di uomini pronti a fermare un intero corteo; una decina di uomini uniti, compatti ma soprattutto decisi a portare a termine quello che era stato detto loro di fare; una decina di uomini chiamati a indossare un casco e a portare un manganello a tutela della sicurezza di tutti e della propria incolumità preparati ad affrontare quattrocento manifestanti, tutt’altro che pacifici, armati di bastoni e di lacrimogeni e con il volto coperto. Mi sono chiesta perché le Istituzioni intervengano solo davanti a un uomo ferito o addirittura morto, perché sui giornali e alla tv si parli solo degli errori delle Forze dell’ordine e non si elogino mai uomini che, nonostante tutto e tutti, dimostrano di sapere fare il proprio lavoro senza eccedere. Numerose sono state le testimonianze di stima e di affetto che, in questi giorni, hanno circondato la mia famiglia, testimonianze che hanno reso me e mia figlia orgogliose di essere parte della Polizia di Stato. Credo però che qualcosa dovrebbe essere detto e fatto, a dimostrazione che un buon addestramento e soprattutto il saper “fare squadra” possa fare molto in situazioni come quelle che ultimamente si ripropongono a ogni manifestazione. Mi scuso per lo sfogo, direttore, e anche di chiederle di coprire con discrezione il mio nome. Ma non sono solo la moglie di un poliziotto, sono anche la mamma di una giovane adolescente a cui vorrei trasmettere serenità tanto quanto l’importanza dei valori per cui ogni giorno suo padre si trova a combattere in questa nostra Italia...
lettera firmata


Anche dopo tanti anni di mestiere, mi emoziona poter ascoltare, dando loro eco, le “voci di dentro” che si levano un po’ discoste e apparentemente flebili dalla grande cronaca che abita le pagine dei giornali eppure aiutano a comprendere a fondo fatti e situazioni. Anche stavolta è così. E sono specialmente grato alla signora che ha scritto questa lettera così appassionata e vera, così piena di dignità e così illuminante perché sa dire, con naturalezza e dolente garbo, del senso del dovere e del limite di chi serve la sicurezza dello Stato, cioè la sicurezza di tutti noi, e della speciale condizione dei familiari di questi concittadini in divisa: poliziotti, carabinieri, finanzieri... Nulla di nuovo? Lo so, anzi lo spero. Ma so anche che nel nostro tempo di troppe smemoratezze questo delicato eppure vibrante promemoria non è affatto inutile. Rileggetele lentamente quelle parole, e immaginate la voce di donna che le pronuncia e, a tratti, le scandisce: vi emozionerete anche voi, e non potrete fermarvi a riflessioni superficiali.
Il diritto di manifestare pensiero e opinioni, di dare voce e corpo a un sentimento politico e anche a un civile dissenso è uno dei princìpi cardine di ogni vera democrazia. Indiscutibile. E tanto più prezioso mentre continuiamo a vederlo messo in discussione e letteralmente mortificato in molte parti del mondo e pure in Paesi molto vicini al nostro (vicini per storia e geografia o vicini per le amare vicende di coloro che hanno dovuto fuggire dalla propria terra e in Italia hanno trovato rifugio e asilo). Ma non si può dimenticare che a difesa di questa libertà e del suo autentico e corretto esercizio c’è un presidio costituito non solo dalla civiltà dei comportamenti frutto di educazione e dell’interiorizzazione del rispetto per gli altri, ma anche dagli uomini e dalle donne delle Forze dell’ordine. Forze di un “ordine” che in una democrazia come la nostra – e la nostra, pur con tutti i suoi difetti, è una salda democrazia – non è mai autoreferenziale e irresponsabile. Un ordine pubblico che va mantenuto e migliorato (non venerato come un feticcio) perché ci riguarda direttamente ed è realizzazione di quella buona “misura” – definita dalla legge, e perciò perfettibile – che riconosce, accoglie, associa e contiene le individualità, le differenze, le relazioni che danno senso, bellezza e fecondità alle nostre vite. Questi sono i valori che è chiamato a rispettare e far rispettare chi veste quelle divise, oggi, nella nostra Italia. Questi sono i valori che ognuno di noi è chiamato a rispettare anche in chi veste quelle divise. Chi non sa rispettare i nostri concittadini in divisa che, secondo le parole della Costituzione, servono la Repubblica e la libertà di tutti «con disciplina e onore» non difende alcun valore o principio: li umilia.


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