I soldati ucraini verso il fronte sulle vie della ritirata dei nostri padri
sabato 26 novembre 2022

I soldati ucraini in colonna sotto la neve, verso il fronte. Accanto, la neve calpestata è già fango e melma, sotto a quel passo di uomini determinato, come di chi è comandato ad avanzare. Le foto dal fronte russo-ucraino sotto la prima neve, le corrispondenze del collega Nello Scavo che da laggiù scrive come fra commilitoni girino bottiglie di vodka – sorsate brucianti, a canna, per resistere al gelo – sono per me un ritorno di fantasmi remoti. Più che parole, silenzi, e frasi lasciate cadere.

Non amava parlare, mio padre, ufficiale alpino della Julia, della sua guerra. Se un amico gliene domandava, cambiava presto discorso. E come si rabbuiava, quando un velo di neve imbiancava Milano. La mia gioia infantile zittiva, davanti al suo improvviso tacere.Sono, adesso, giusto 80 anni. Nell’inverno del ‘41 gli uomini della Julia e delle altre Divisioni italiane erano in quella stessa regione.

Allora era Urss, oggi in parte è Ucraina. Isjum, dove mio padre arrivò, è Ucraina. Karkiv, dove giunse da Belgorod aggrappato alle assi di un treno merci a 30 gradi sottozero, è Ucraina, e nel cuore di questa nuova guerra. Di nuovo guerra nel gelo, nelle stesse terre, 80 anni dopo: la vita di un uomo. Quei vecchi civili tremanti potrebbero essere i bambini di cui i nostri udirono, da un’isba nella steppa, il primo vagito.

La guerra ci rincorre, ho pensato guardando le foto dal fronte ucraino: sembra finire ma torna, abita dentro di noi – come una mala pianta che, quando il clima è giusto, attecchisce.Di quei mesi lontani, appunto, da mio padre ho saputo ben poco. C’era in un cassetto di casa una medaglia d’argento, di cui non parlava mai. Non voleva che io, bambina, sapessi. Lui stesso, ammetterà poi nel suo “La ritirata di Russia”, per vent’anni aveva cercato di dimenticare, ricacciando giù i ricordi, cercando di affogarli nell’oblio.A vent’anni ho letto quel diario.

In una notte, non riuscendo a staccarmene. Ecco dove eri stato, papà, mi sono detta, man mano che leggevo più atterrita. L’inverno del ‘42-‘43 fu feroce all’Est, quell’anno, oltre 30 gradi sottozero. Molti italiani, male equipaggiati, morirono di assideramento. Poi, a gennaio ’43, la tragica sacca del Don. Bastarono le foto in quel libro, le colonne degli alpini nere sul manto candido, fantasmi macilenti, a farmi il cuore a pezzi.Marciavano con la barba coperta di ghiaccio, lenti come ubriachi. Lungo la colonna, molti corpi immoti nella neve. Chi si fermava, anche per un momento, era perduto. E le lotte per trovare riparo in un’isba già colma di tedeschi, le urla nella notte: “Raus!”, “Fuori!”. E nella fame custodire come un tesoro, in una tasca, una patata gelata. (Capivo allora il tuo sguardo, quando noi ragazzi a casa, a Milano, si buttava il cibo avanzato).

Tutto in una notte, d’un fiato, ho letto, fino a Nikolaiewka. La colonna di mio padre arrivò la sera dopo la battaglia, per questo forse lui tornò. I compagni gli dissero del massacro, e di un cappellano che con una slitta non smetteva di raccogliere moribondi – un tale don Gnocchi. Poi in marcia ancora, zoppi, semicongelati. Finché si cominciò a mormorare, fra i superstiti: “Siamo fuori”. Ma piano, come non credendoci davvero.Ho chiuso il libro, e non ti ho fatto domande. Capivo: su tanto strazio, occorre pudore. E quando in un film quelle ombre nere nella neve mi tornavano davanti, mi liberavo dall’angoscia dicendomi: però è finita, è passata, per sempre. Questo credevo nell’Italia in cui crescevo, ne ero certa: mai più, una guerra in Europa.

Poi sono venute le guerre dei Balcani. E quelle del Caucaso. E adesso in Ucraina quei civili al gelo e al buio che sfollano in colonna; quei soldati che marciano sulla neve, di nuovo, i fucili in spalla, mio Dio, di nuovo. Per riportare quel che restava della Julia in Italia bastarono tre soli convogli. Tu, papà, hai varcato il Brennero all’alba del 19 marzo ’43. C’erano già i peschi in fiore: «L’Italia mi sembrò un grande meraviglioso giardino», ha scritto.Meraviglioso giardino, la pace: chi ci nasce dentro nemmeno lo capisce. Crede che sia scontato andare a scuola, mangiare, andare in vacanza.

Tutto ovvio, dovuto. Poi, come noi nove mesi fa, ci si risveglia una mattina increduli: i carri armati russi sono entrati in Ucraina. Attoniti, sgomenti: ma poi, col tempo, non quasi assuefatti? Quella guerra sembra lontana. (Lontana eppure vicina, con armi tali da minacciare il pianeta – cose cui cerchiamo di non pensare).Ma le foto dal fronte ucraino, le truppe nella neve, bruciano per me come sale su una vecchia ferita. Non è possibile, mi dico. Se n’era andata da noi la guerra, da tanto tempo. La vedevamo in luoghi lontani, o nei film, e spegnevamo, se era troppo sanguinosa. Ci giocano i bambini alla guerra, nei videogiochi. Una cosa irreale. Impensabile. Finita.

Rieccola, nella neve di un nuovo inverno, nella medesima terra. La credevamo morta, era solo assopita. In letargo, ma viva dentro noi uomini: come un gene all’infinito tramandato.

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