domenica 30 gennaio 2011
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Ogni messaggio, quando è davvero significativo, porta in sé una forza che suscita libera corrispondenza in chi lo riceve. “Educare alla pienezza della vita” è  il messaggio che i nostri vescovi hanno pensato per la 33esima Giornata nazionale per la vita.  È un messaggio che ha acceso in me – e spero in tanti di noi, soprattutto in quanti hanno responsabilità pubbliche – echi forti e riflessioni conseguenti, due in particolare. La prima è nella “testa” di questa nuova chiamata all’impegno e vorrei fosse nella testa di ognuno, e nasce dal verbo «educare» . La seconda è posta nel “cuore” di questo coinvolgente testo e mi piacerebbe che fosse parte del cuore di tutti, e prorompe dalla parola «riconoscenza».Questo è un tempo che chiede a chi crede in Gesù Cristo –­ – e a tutti coloro che hanno un’idea alta e buona della nostra umanità e delle esistenze più piccole e indifese – presenza, consapevolezza ed efficacia d’azione. Anche e soprattutto educativa. Lo dico in un modo che potrà forse sembrare sbrigativo, ma il problema che è andato maturando e la sfida urgente che abbiano davanti – tornare a «educare alla pienezza della vita», appunto – sono in buona parte il risultato di una presunzione e di una pigrizia. Tanti adulti da ormai troppo tempo hanno infatti cominciato a dare per scontato ciò che scontato non è più (ecco la presunzione), e cioè che i valori fondamentali e un senso della vita nutrito di umanesimo cristiano continuassimo a “respirarli”  nell’aria di casa, in un clima naturalmente favorevole, sotto un cielo morale ancora e sempre specchio di una terra d’impasto buono e ricco di positività. Non è così, purtroppo. Non è così del tutto, voglio dire. E non è così per i nostri figli e per noi stessi. Perché nulla è appreso una volta per tutte, anche se è comodo pensarlo (ecco la pigrizia). L’eredità preziosa che abbiamo ricevuto – e  che continua ad arricchirsi in questa epoca «difficile ed entusiasmante» che è la nostra – dobbiamo saperla trasmettere e ritrasmettere, con passione e costanza, attenti a non farci confondere e distrarre dall’immenso ronzio di fondo e dalle allettanti “novità” del mercato globale delle cose, delle idee e delle manipolazioni sull’uomo . Dobbiamo soprattutto recuperare una saggezza basilare e capire che ciò che viene trasmesso con la forza incalzante (e mai pedante) dell’esempio – cioè con una «pienezza di vita» dimostrata e offerta -  è più facile da accogliere e da fare proprio con convinzione. Ecco: educare è aiutare a essere migliori, è convincere che vale la pena di cercare questo compimento (che non è mai solo per se stessi) e che questo fa felici.Ma che cos’è che ci fa davvero felici? Se ci pensiamo appena un po’, ci rendiamo conto che la cosa che dà più gioia è essere accettati e apprezzati per quello che si è e che si fa, è sentire riconoscimento e riconoscenza attorno a noi. Ebbene in questa nostra Italia così attenta ai lati peggiori di sé e così lenta a valorizzare il bene di cui è ancora è sempre culla, i nostri vescovi ci consegnano invece parole bellissime e vere di riconoscimento e di riconoscenza. Per le famiglie che accudiscono in casa i loro anziani. Per le mamme e i papà che, anche nelle difficoltà economiche, accolgono nuove creature. Per i genitori che aiutano i figli adolescenti a crescere con il senso di Dio, del bene e della giustizia. Per i nonni, magari stanchi, eppure instancabilmente saggi e generosi di sé. Per i sacerdoti che spezzano per noi, e soprattutto per i  piccoli e i poveri, il Pane e la loro stessa vita. Per gli insegnanti capaci di fare della scuola un’impareggiabile «esperienza generativa» alleata della famiglia. E infine, ultimi non ultimi, per coloro che si fanno movimento solidale nella nostra società e nelle loro giornate danno spazio volontariamente, con dedizione speciale, alle vite più fragili: quelle appena all’inizio dei bambini non nati e quelle di quanti affrontano l’ultimo tratto del cammino terreno. A tutti i vescovi dicono grazie, anche per conto di chi non l’ha fatto sinora e, magari, non lo farà neanche domani.Riconoscimento e riconoscenza sono sentimenti nobili e forti. Come nobile e forte e straordinariamente buono è il segno impresso nella realtà del nostro Paese da coloro che li meritano. Unirci a loro, essere loro (cioè essere davvero noi stessi), ritrovarci e farci senza presunzioni e senza pigrizie «educatori alla pienezza della vita», è il compito che oggi ci viene proposto. Non possiamo proprio tirarci indietro.  
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