A Napoli si vive e si muore di camorra
martedì 5 gennaio 2021

Un filo rosso di sangue ha unito in meno di tre mesi un padre e un figlio. Tra i botti di Capodanno sei 'botte' di pistola hanno strappato la vita di Ciro Caiafa, pregiudicato legato ai clan, colpito a morte dai killer mentre si stava facendo tatuare un braccio nella sua casa, un 'basso' in zona San Lorenzo, Centro Napoli. Ciro, 40 anni, era il padre di Luigi, il ragazzo di 17 anni ucciso da un poliziotto nel corso di una rapina. Con lui un altro ragazzo, Ciro De Tommaso, figlio del pluripregiudicato soprannominato Genny ’a Carogna. Padri e figli destini drammaticamente comuni.

Non grandi boss ma ugualmente inseriti in quel 'sistema' che sembra non lasciare scampo né scelta. Forcella, Quartieri spagnoli, Tribunali. Il centro della città. Centro vivo ma ancora segnato dal degrado. Le famose pizzerie e a fianco ancora i puntellamenti del terremoto del 1980, uguali a 40 anni fa. I cesti che scendono dai piani alti per accogliere la spesa ma anche per distribuire sigarette e droga. Le sentinelle della camorra e le belle iniziative anticamorra, come la 'Biblioteca a porte aperte', creata da Giovanni Durante, papà di Annalisa uccisa, ad appena 14 anni, il 27 marzo 2004 mentre usciva con le amiche. Già, qui si muore da adolescenti, per un colpo destinato a una resa dei conti o per un colpo destinato a reprimere un reato.

Si muore e si vive. Nei 'bassi' insalubri, come quello in cui è stato ucciso Ciro Caiafa. Ma qui c’erano anche i lussuosi appartamenti dei Giuliano, dove venne immortalato Maradona nella vasca da bagno a forma di conchiglia. Il buio e la luce. Spesso assieme. Alcuni anni fa mi capitò di andare a mangiare una pizza, proprio lì, con l’allora parroco di San Giorgio Maggiore, don Luigi Merola, e i suoi 'ragazzi', l’ex guardaspalla di Giggino Giuliano, la prima vedova della faida di Scampia, un 'pacchista', una 'tossica' spacciatrice, e tanti altri 'normali'. Chissà che fine hanno fatto.

Che strada hanno imboccato? La vicenda del figlio e del padre Caiafa torna a farci queste domande. Cosa succederà ora agli altri tre figli di 15, 13 e 7 anni che hanno visto il padre morire? Chi si occuperà di loro? C’è ancora tempo. Non è già segnato il futuro loro e di tanti giovani di questi e di altri quartieri napoletani. Ma non si deve attendere. Troppo facile considerarli ragazzi 'a perdere', irrecuperabili, sui quali investire è inutile. Una città, una società che lo pensa ha già dichiarato la propria sconfitta. Ma va fatto subito. Prima che arrivino altri. Questa non è la Gomorra televisiva.

A questi ragazzi restano le briciole dei grandi affari dei clan, sperano di salire la classifica criminale, e quasi sempre li aspettano solo due traguardi: il carcere o la morte. Ma quali esempi hanno davanti? Luigi aveva solo un padre che a 40 anni entrava e usciva dal carcere, ma senza diventare mai un big della camorra. Forse ci ha provato, e lo hanno drammaticamente punito, veri boss o altri che come lui ambiscono a diventarlo. «Voglio chiarezza e giustizia per mio figlio», aveva detto a ottobre, mentre era agli arresti domiciliari. È arrivata, invece, anche per lui la morte, in quella stessa casa. Non è stato ucciso in una villa lussuosa, con vasche idromassaggio, rubinetti d’oro e telecamere, ma in un umido 'basso', piano strada, bilocale dove vivevano in sei e ora sono rimasti in quattro. Una storia che si ripete.

Drammaticamente. Famiglie dove le parole sono coca e pistole. Di padre in figlio. Come i due minorenni fermati per il pestaggio di un rider per rubargli lo scooter, figli di camorristi del clan Di Lauro. Ipocrita negarlo. Magistrati e forze dell’ordine hanno più volte spiegato che l’unico affare che pandemia e lockdown non hanno bloccato è quello della droga. E tanti hanno provato a inserirsi o a fare il salto in classifica.

«Ragazzi, molto spesso bambini, già inseriti in un 'giro' di droga. Per loro quale futuro? Se non diventano consumatori di eroina, se riescono a sopravvivere, è difficile che possano imboccare altre strade che non siano quelle dell’illegalità, dello spaccio diretto, dello scippo, del furto». Lo scriveva Giancarlo Siani il 22 settembre 1985, il giorno prima di essere ucciso dalla camorra, ad appena 26 anni. Giornalista vero che oltre a denunciare cercava di capire. Sono passati 35 anni. Ma cosa è stato fatto, cosa di fa per evitare davvero che sia sempre e solo cronaca nera?

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