«La speranza? Non arrendermi alla Sla. Ho un debito con la vita»

Professionista della ristorazione, una bella famiglia. Ma a 52 anni irrompe la Sclerosi laterale amiotrofica. E lui risponde chiedendosi come può non farsi rubare il futuro. Una testimonianza di luce
September 20, 2025
«La speranza? Non arrendermi alla Sla. Ho un debito con la vita»
Davide Rafanelli con la figlia Aurora
La speranza è ciò che rende viva la nostra anima. Credo sia il sentimento più forte di cui facciamo esperienza e che ci rende capaci di amare. La impariamo a conoscere fin da bambini, nelle cose piccole; la nutriamo e ce ne prendiamo cura, quasi senza accorgercene, per prepararci alle sfide grandi della vita. Le diamo nome e forma e le riserviamo lo spazio più profondo del nostro essere. La speranza è fatta della tenacia di cui è fatta la vita, radicata nel nostro desiderio di esserci e di respirare la bellezza che ci circonda. È una compagna fedele, capace di trasformarsi ogni volta, anche quando il viaggio cambia repentinamente direzione.
Se penso al mio di cammino, prima di incontrare la Sla, sperare per me significava sognare una famiglia, diventare un buon marito, un buon papà. E da imprenditore del food e appassionato di cucina, far incontrare gli altri intorno alla tavola era ed è la mia ricetta di felicità. A distanza di anni questi sogni li ho realizzati: sono un marito, un papà e il mio lavoro ha a che fare con la mia passione per la buona cucina. Tutto sembrava correre sui binari giusti, verso una meta chiara, così pensavo...
Il 19 dicembre 2021, però, è arrivata la diagnosi di Sclerosi laterale amiotrofica. Avevo 52 anni. Quando la vita correva veloce, la malattia mi ha costretto a fermarmi, a ridefinire le priorità e a ripensarmi in un nuovo progetto. La Sla ha cambiato anche il volto della speranza. Oggi è più profondo: si nutre del presente e dell’amore della mia famiglia. Chiamo la Sla una “ladra di sogni” perché ruba il futuro, ma non ha il potere di togliere il presente, la gioia delle emozioni, la qualità del tempo che ci è dato.
Da questa consapevolezza è nato il mio impegno nell’associazionismo. Quando nel mio percorso di malattia mi sono trovato in rianimazione mi sono chiesto come avrei potuto essere utile se fossi riuscito a superare quel momento. Ed è proprio lì, in quel letto, che è nata l’idea di SlaFood, l’associazione che oggi presiedo e che unisce a titolo volontario quasi cento chef italiani. Un progetto che si è realizzato grazie all’alleanza con Apci Chef – l’Associazione Professionale Cuochi Italiani – e, soprattutto, all’amicizia fraterna con Roberto Carcangiu, presidente dell’Associazione e oggi vicepresidente di SlaFood.
Rafanelli (al centro) con gli chef di SlaFood
Rafanelli (al centro) con gli chef di SlaFood
Attraverso la cultura del buon cibo, raccontiamo cosa significhi vivere con la Sla. Perché il cibo è amore, è convivialità, è leggerezza, che può accompagnare anche il dolore. Con SlaFood siamo al servizio dei Centri Clinici NeMo, i centri pensati e voluti dalla comunità dei pazienti con Sla e malattie neuromuscolari, e di AiSla, l’Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica, riferimento per noi persone con Sla. Promuoviamo eventi e iniziative che hanno l’obiettivo di continuare a dare visibilità a questa malattia e al coraggio di chi la affronta ogni giorno, sostenendo la ricerca scientifica e i progetti di cura nell’ambito della nutrizione. Solo nell’ultimo anno abbiamo realizzato dodici eventi che hanno visto impegnati oltre cinquanta volontari, tra chef, maestri panificatori, pizzaioli e barman: dalle cene di raccolta fondi al convegno scientifico sul tema “Sla e nutrizione”, in collaborazione con il Centro NeMo, AiSla e l’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo. Due giornate intense di formazione specialistica, rivolte a operatori e studenti, nelle quali abbiamo dato il nostro contributo nel laboratorio del food dell’Università, facendo cimentare i partecipanti con le tecniche di modifica delle consistenze dei piatti.
Mi piace pensare a SlaFood come a un vero e proprio movimento culturale, capace di testimoniare che anche con la disfagia – perché la Sla, con il tempo, limita anche la capacità di deglutire – è possibile continuare a vivere il piacere del gusto e la convivialità della tavola. Lo facciamo proponendo piatti buoni, sicuri e con consistenze modificate, perché nessuno debba rinunciare alla bellezza di condividere un pasto. È un impegno e al tempo stesso una sfida che portiamo avanti per contribuire a offrire un sostegno concreto alle famiglie.
Ho imparato in questi anni che affrontare la Sla da soli non è possibile. La malattia ti pone di fronte ai continui mutamenti di un corpo che cambia, spesso in modo repentino; ti costringe a fare i conti con il limite, con la dipendenza totale dagli altri e con la necessità di riorganizzare la tua vita personale e familiare. Per questo è fondamentale contare su una comunità con cui condividere questo percorso, e l’incontro con NeMo e AiSla è stata per me la risposta a questo bisogno.
Se è vero che la Sla è una malattia che coinvolge tutta la famiglia, sto sperimentando che solo grazie a una famiglia ancora più grande si possono trovare le risorse per affrontarla. Lo dico soprattutto da papà. In Italia sono centinaia i bambini e i ragazzi che vivono accanto a un genitore malato, spesso costretti a crescere troppo in fretta. Io lo vedo negli occhi di mia figlia Aurora: lei sa che la malattia è parte della nostra vita e che inevitabilmente sta segnando il suo mondo. Allo stesso tempo, però, mi accorgo della forza che sta scoprendo: in lei vedo lo sguardo di chi sta imparando a riconoscere il valore della famiglia e di chi non dà per scontata la presenza delle persone che le vogliono bene. Da padre, il mio compito è continuare a farle cercare questo sguardo di amore nell’altro e nella vita, fatta delle piccole e grandi cose di ogni giorno, delle emozioni del presente e della speranza per il futuro. Le sue giornate sono piene, come quelle di tutti i bambini, tra scuola, danza, giochi e amici. In questo suo crescere deve sapere che il suo papà è presente, con tutta la sua voglia di vivere.
Ecco perché la XVIII Giornata nazionale Sla di AiSla, che si celebra domenica 21 settembre in migliaia di piazze in tutta Italia, va ben oltre il significato di un semplice evento simbolico. È un vero e proprio atto di cittadinanza della speranza, un momento in cui la comunità si riconosce e si stringe attorno a chi vive con la Sla. Volontari, famiglie, medici, ricercatori, istituzioni: tutti insieme testimoniano che nessuno affronta questa malattia da solo, che il coraggio individuale trova forza nella rete collettiva. Ogni manifestazione, ogni incontro, ogni gesto – dalla raccolta fondi al laboratorio didattico – diventa un mattone di solidarietà e un messaggio chiaro: la speranza ha volto, corpo e voce, ed è viva nelle persone che si scelgono di stare accanto agli altri, passo dopo passo.

Certo, per noi malati la speranza è nella cura, e sappiamo che la ricerca sta lavorando in questo senso: tanto si è fatto in questi ultimi anni, e sono convinto che si arriverà ad avere delle risposte concrete in un futuro non troppo lontano. Penso per esempio al farmaco Tofersen per chi ha una specifica mutazione genetica di Sla; penso all’impegno dei clinici nel raccogliere i tanti e tanti dati di ogni paziente, per costruire la storia naturale della malattia, così fondamentale per la ricerca. Anche per questo il mio impegno da volontario vuole essere testimonianza di questa certezza, perché chi si ammalerà domani possa avere delle prospettive diverse da quelle che ho avuto io. Ecco, sperare oggi per me significa non rinchiudermi nella malattia ma continuare a tessere legami, per provare a cambiare un pezzetto di storia insieme. È commuovermi ogni volta che mia figlia mi chiama papà e sapere che c’è sempre un filo, sottile ma resistente, che mi spinge ad andare avanti con amore.

So di avere un debito con la vita: ho ricevuto e ricevo moltissimo, e con la leggerezza e l’energia che da sempre mi contraddistinguono voglio restituire tutto il bene di cui sono stato inondato. In fondo è un po’ come cucinare: serve attenzione nella scelta degli ingredienti, cura nei gesti, pazienza nei tempi. Ma ciò che dà davvero senso a tutto è l’amore. È l’amore che lega i sapori, li armonizza e trasforma il piatto in un dono. Così ogni atto d’amore diventa condivisione che ci permette di assaporare il presente, di essere grati per ciò che si ha e di provare a camminare insieme per diventare persone migliori. Perché, se la speranza è fatta d’amore, l’amore rimane sempre.
*Presidente di SlaFood

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