sabato 13 gennaio 2024
L’ex Ilva, il disastro ambientale, la crisi occupazionale
Ciro Miniero è l'arcivescovo di Taranto da luglio 2023: «Sto imparando a conoscere la sofferenza tangibile di questa terra»

Ciro Miniero è l'arcivescovo di Taranto da luglio 2023: «Sto imparando a conoscere la sofferenza tangibile di questa terra» - ANSA

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L’ex Ilva, il disastro ambientale, la crisi occupazionale. A Taranto diventa difficile pure parlarne in questa fase delicata. Ne sa qualcosa Ciro Miniero, arcivescovo della diocesi ionica dallo scorso luglio, le cui parole in una recente intervista su questi temi hanno suscitato polemiche.

Eccellenza, partiamo da una frase estrapolata dall’intervista rilasciata a Radio Vaticana che ha scatenato le critiche di alcuni cittadini tarantini sui social network. Ha detto: “La chiusura sarebbe veramente una catastrofe, che significherebbe non pensare al bene della comunità che è stata formata per questo”. Intendeva che per Taranto il destino è segnato?

Mi riferivo alla chiusura immediata senza risposte, senza una progettazione, senza un piano chiaro di bonifiche, senza la presa in carico dei numerosi lavoratori. Il processo di emancipazione dalla monocultura dell’acciaio è lungo e va accompagnato. Cosa significherebbe chiudere oggi lo stabilimento? Significherebbe lasciare migliaia di lavoratori nell’incertezza di poter far fronte alle esigenze delle loro famiglie; significherebbe il fallimento delle aziende operanti nell’indotto; tutto questo in una città già depressa economicamente. Senza contare l’addio definitivo ad ogni progetto di bonifica del territorio: non sarebbe questo un quadro catastrofico? Sì credo questa sia una catastrofe, che può andare a rendere ancora più drammatica la già grave situazione tarantina prostrata dai problemi dell’ambiente, della salute e del lavoro. Assolutamente non volevo esprimere né fatalismo, né rassegnazione e mi conforta che in tanti, dopo un ascolto più pacato, abbiano ben interpretato il mio pensiero, che avrei potuto esprimere forse più chiaramente. Occorre pensare al bene di una comunità e adoperarsi perché questo bene sia concreto. Taranto, facendo eco all’enciclica di papa Francesco, può vantare un credito mondiale, in termini ecologici.


L’arcivescovo rilancia l’appello a non abbandonare la città: «Occorre pensare al bene della comunità con una progettazione e un piano chiaro di bonifiche. Non mi sognerei mai di ferire nessuno, specie ammalati e vittime dell’inquinamento»

Taranto è una città divisa, addolorata, delusa. Gli operai denunciano la mancanza di sicurezza in fabbrica, vivono con gli ammortizzatori sociali, sono arrivati ad occupare una chiesa prima di Natale, con le imprese dell’indotto che non vengono pagate. Che cosa si sente di dire loro?

Gli operai sono stati ricevuti anche dal cardinale Zuppi, e questa è la testimonianza che la Chiesa è vicina. Ed io voglio ribadire la prossimità della Chiesa, la vicinanza. Nel mio messaggio di Natale volutamente ho detto che tale prossimità si vive essenzialmente nelle proprie comunità parrocchiali. Credo che al di là delle interpretazioni o di questa o di quella dichiarazione del vescovo o di qualunque altra istituzione, i fatti di una vicinanza dei sacerdoti, delle comunità, siano tangibili nell’esperienza ordinaria. Potessimo fornire soluzioni lo avremmo già fatto. Ma non sarebbe nemmeno il nostro compito. Noi dobbiamo continuare a lavorare per garantire la dignità di ogni persona al di sopra di ogni tipo di interesse politico ed economico.

Poi ci sono le morti per tumore o malattie correlate all’inquinamento, di cui le prove scientifiche sono innegabili, con un disastro ambientale sancito in un maxi processo. Quale messaggio manda a chi vive il dolore della malattia e del lutto?

Ho visitato gli ospedali prima di Natale, e proprio nei giorni scorsi ho incontrato i parroci del rione Tamburi. Sono impressionato dai racconti degli immobili svenduti, della gestione delle aperture e chiusura delle finestre nelle scuole nei giorni di vento, dai racconti delle famiglie che lasciano la casa. È tutto dolorosamente irrazionale. Sto imparando a conoscere la sofferenza tangibile di questa terra. Sono mortificato che l’interpretazione di una mia affermazione sia stata scagliata all’indirizzo degli ammalati e delle vittime dell’inquinamento. Mai mi sognerei di ferire in alcun modo nessuno, tanto meno persone già gravemente ferite. Ho imparato da qui una dolorosa stanchezza e disillusione della città, una rabbia che ora più chiaramente comprendo. Voglio in semplicità dire che il Vangelo parla innanzitutto a coloro che ne hanno bisogno, perché ammalati, nel pianto, nella persecuzione. Questa è la priorità, la mia priorità, la priorità della Chiesa tarantina. Non altro. Siamo stati salvati nella speranza, direbbe san Paolo, e a questa speranza ci appoggiamo, perché è capace di darci un futuro trasformando il presente.

Nelle scorse ore ha ribadito l’appello al governo a non abbandonare Taranto. Come ritiene che possa essere aiutata la città?

Lo stabilimento di Taranto è stato definito «strategico» per il Paese. Taranto ha quindi svolto un ruolo da protagonista per lo sviluppo nazionale, pagandone tutte le spese. Per anni, le scelte fatte dallo Stato hanno sacrificato il benessere della città. Ora chiediamo che quello stesso Stato si assuma la responsabilità di accompagnare la città verso una transizione giusta. Ad oggi, a livello locale come centrale, non vediamo i segnali di lungimiranza e concertazione politica che la gravità del momento richiederebbe.

Pensa che il modello europeo di conversione green dell’acciaio sia effettivamente esportabile anche in Italia, a Sud, a Taranto?

La domanda è: lo vogliamo davvero? O meglio, lo vuole davvero chi oggi avrebbe il potere di farlo? Non sono un ingegnere, leggo di esperienze virtuose che si potrebbero replicare. Al Sud sembra però tutto più difficile, sembriamo scontare un’atavica tendenza al fallimento dovuta agli uomini che della Storia non sono in grado di diventare attori positivi.

La questione è certamente politica, economica ma è anche “di cuore”, esistenziale. I giovani vanno via come avviene in tante città del Sud. Manca il capitale umano. Chi resta è sfiduciato. Come può contribuire la Chiesa a riaccendere una speranza?

Sono napoletano. È un problema che mi sta a cuore. L’ho vissuto da parroco a Napoli e poi da vescovo, a Vallo della Lucania in Cilento. Potrei dire che la Chiesa resiste. La Chiesa non si stanca di rivitalizzare i luoghi dove si trova a vivere. Io mi auguro che ogni comunità rinnovi quel coraggio di spendersi per i giovani. Nei periodi più bui della storia, santi uomini e donne coraggiosi, profetici e visionari, hanno avuto la capacità di trasfigurare il volto senza speranza di intere zone e generazioni. Se è stato possibile in passato, possiamo renderlo possibile anche adesso.

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