sabato 23 gennaio 2021
L’esperienza dei prigionieri costretti a collaborare allo sterminio costituisce un abisso dentro l’abisso, in cui la lotta per la sopravvivenza raggiunge la violenza assoluta
Il lager di Auschwitz Birkenau

Il lager di Auschwitz Birkenau - Wiener Library / Ansa

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La vicenda del sonderkommando non è La vita è bella o la colonna sonora un po’ zuccherosa di Schindler’s list. Non si può disinnescare con la retorica che maschera la nostra indifferenza. Non è come siamo soliti immaginare le storie, con un inizio, uno svolgimento e una fine, su cui siamo ansiosi di piazzare la morale per fare bella figura. Questa storia non ha né una fine né una morale. È una abnorme finestra mistica sull’abisso in superficie, l’abisso dell’ordinario. Ogni morale qui è sospesa perché nessuno è in grado di farsene carico. Su questa terra è esistita una realtà creata e nominata dai nazisti sonderkommando. Gruppi di deportati il cui compito era supportare le SS nelle operazioni di sterminio. Sconvolgente. Sabbia mobile di una meditazione interdetta e senza sfogo, sempre sul punto di abbandonare, sempre tenuta in vita da una domanda che parte dalle viscere ma non arriva da nessuna parte. La storia del sonderkommando, come un giudice inappellabile, chiama in causa l’ipocrisia umana fatta sistema. Il sonderkommando è la prova della nostra ineludibile contiguità con il male che puntualmente tentiamo di negare.

Un male apparentemente inspiegabile, così al limite da risultare impossibile allo sguardo, anche da lontano, se non si vuole diventare statua di sale. La mia visita ad Auschwitz di due anni fa, nata dal caso, ha generato in me una scossa irriducibile che mi ha condotto nel tempo verso il sonderkommando. A prima vista il sonderkommando sembra delineare una categoria di chimere ignobili. Peggio dei carnefici. Primo Levi li definisce corvi neri, da uomo riflessivo e mite quale me lo immagino. Il sonderkommando, il non classificabile, portatore di un fardello di colpa su cui è meglio non esprimersi perché sembra sporcare tutto ciò che tocca. Il sonderkommando però non erano corvi. Erano uomini. Non erano i carnefici. Erano vittime. Private dei diritti delle vittime. Private del diritto di compiangersi. Quello che succedeva nel sonderkommando e attraverso il sonderkommando era il punto limite dell’umanità. Eppure è stata quotidianità per migliaia di esseri umani. A volte di una umanità che lascia sgomenti. Il sonderkommando. In bilico costante sulla voragine di un passaggio tragico, orrendo, mistico. Pensato e realizzato dagli uomini, ma oltre l’uomo. Ad alcuni è stato imposto di stare sulla porta dell’inferno che è oltre l’apparenza, pure brutale, di quel rito. Non molto tempo fa ho trovato il libro che raccoglie gli scritti furtivi di Salmen Gradowsky, seppelliti a Birkenau nella speranza che qualcuno, un giorno, li avrebbe trovati: Sonderkommando, diario di un crematorio di Auschwitz, 1944.

Un grido soffocato di esistenza, rivendicazione di una umanità la cui perdita si rinnova ogni momento. Gradowsky è stato membro del sonderkommando di Auschwitz per parecchi mesi. La sua unica possibilità di dirsi umano si è aggrappata al racconto del suo incomprensibile giorno ordinario. Di cui è stato vittima e operaio, nel punto critico della storia e del mondo. Perché si voleva sopravvivere, anche ad Auschwitz. Il punto critico era un percorso breve e assoluto, concentrato di morte. I membri del sonderkommando celebranti. I nazisti, i veri carnefici, hanno immaginato il sonderkommando come disumanizzazione definitiva. Quello di Gradowsky è un testo mistico. Attraverso le sue parole semplici, a tratti anche poetiche, mi sono affacciato a una finestra di cui non posso avere immagini, odori, suoni. Per fortuna. Quelle poche righe mi hanno come sospeso nel compiersi di quel rito mostruoso e ordinario, senza risposta, soluzione o redenzione. Il passaggio dal camion alla svestizione, alla camera a gas e quindi al forno è fatto di persone, è fatto di gesti.

Gradowsky è costretto dalla maledetta sopravvivenza ad assistere e celebrare il martirio di persone come lui, nella speranza contraddittoria e ossessiva che qualche loro gesto eroico potesse scardinare il meccanismo di distruzione, soccorrendo la sua fatale impotenza. È lì, ma non comprende. La dissociazione tra il gesto meccanico e la sua umanità in agonia è lancinante. Lo stupore, la rassegnazione, la disperazione, la menzogna. Il tempo della trasformazione industriale dell’uomo in cenere è la notte, illuminata da una luna che splende sempre e comunque su vittime e carnefici, senza preferenze. Pensando all’infamia dei compiti atroci del sonderkommando, siamo tutti pronti a giurare che noi non lo avremmo fatto. È un esempio meschino di sdegno ipocrita e vigliacco, il primo a voltare la testa di fronte ai soprusi di ieri e di oggi. La verità è che nessuno può dire cosa avrebbe fatto sotto la minaccia di passare per il camino, in condizioni di deprivazione della volontà.

Nell’immaginario comune, almeno lo era per me, non ci si chiede molto sulle camere a gas. Si pensa che quando uno vi entrava la catena del dolore era finita. Non è così. Arrivare alla camera a gas non era la fine dell’inferno. La camera a gas era il gradino più basso di un incubo ancora tutto da vivere. La camera a gas era feroce, terrificante. Schiacciati nel buio insieme a centinaia di altre persone i cui corpi diventavano l’ultimo strumento di morte. Lì dentro la lotta era tremenda. Quando, terminate le grida, veniva aperta, l’indistricabile groviglio di corpi trovava i più robusti in alto, morti cercando di sfuggire al gas che si diffondeva dal basso, dopo aver calpestato e schiacciato i più deboli, bambini, donne, anziani. Era una colpa questa? No. Su questo non può esservi dubbio. La pietà prevale su ogni giudizio quando l’uomo è posto così all’estremo da non riconoscersi. Per il sonderkommando vale lo stesso. Se non era una colpa cercare l’aria schiacciando gli altri non è stata una colpa cedere alla sopravvivenza. Anche questo è un uomo.

Il santo, l’eroe, sono l’eccezione. Che non può essere richiesta come attestato del minimo di dignità umana. Perché decreterebbe la condanna definitiva della maggior parte di noi. Gli scritti di Gradowsky hanno un livello di umanità spiazzante che stride in modo insopportabile con la realtà da cui provengono. Il sonderkommando parla di noi, anche se non vogliamo sentirlo dire. La loro infinita disgrazia è un monito che ci permette di guardare dentro un po’ di più senza pagarne il prezzo. Gradowsky non mi fa rabbia né orrore. Gradowsky mi fa tenerezza, una tenerezza ormai inutile. Ma tenerezza. Tenerezza per lui, per tutte le vittime, per il genere umano, per me. Non è una risposta. È l’inizio di una domanda. Inizio della trasformazione di ciò che è stato distruzione in fonte di vita, ispirazione, rigenerazione, senza cui ogni memoria, ogni celebrazione, sono profondamente, irrimediabilmente inutili.

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