martedì 11 novembre 2014
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«Con lo zio per tutta la vita abbiamo spesso parlato di temi religiosi. Nella villa di famiglia a Monterosso, a casa nostra a Genova e poi a Milano, in via Bigli. Fino alla fine. La nostra è stata una continua frequentazione». Lo zio in questione è Eugenio Montale. Lei, Bianca Montale, classe 1928 figlia del fratello, è l’erede dei diritti dell’opera del «poeta del dubbio». Il dubbio che la realtà sembra rimandare ad altro, ma poi è solo apparenza. Solo un imprevisto può essere la salvezza, ma questo miracolo, nei suoi versi, sembra non poter accadere. Rimane un’attesa.Bianca è stata la nipote preferita, proprio lei che ama definirsi «una credente di ferro da prima del Concilio: il Vangelo per me è tutto». Nel suo appartamento nel capoluogo ligure, alle pareti i quadri dello zio e della mamma, «grande pittrice e cattolica inflessibile. Erano amici d’infanzia insieme alla zia Marianna... Cattolica più aperta. Eugenio ricercava la loro compagnia. Ne aveva grande stima». Sul tavolino, sparse, alcune pagine dattiloscritte.Laurea in Lettere all’università di Genova, giovanissima vince la cattedra come professore ordinario di Storia del Risorgimento e insegna a Bergamo e poi a Parma. «A Genova, dove ero incaricata, non mi hanno mai chiamato perché nel tempio sacro del marxismo io, cattolica, non ero gradita. Ci sono arrivata tanti anni dopo, ma nella facoltà di Magistero. D’altronde anche lo zio non gli è mai piaciuto. "Un borghese" lo definivano. Io dico: uno in continua ricerca». Non vuole parlare della poesia di Montale, di quel «male di vivere» che si ritrova nelle liriche, preferisce raccontare della sua umanità, dell’uomo Montale. Svelando tratti, ricordi, accenti meno conosciuti.Cosa significa: era in continua ricerca?«Tutta la vita ha cercato le tracce della presenza di quell’Invisibile di cui si sentiva amico. Ma gli è mancata la "folgorazione" della fede, senza la quale è difficile razionalmente comprendere tante cose della Chiesa. Per questo, a mio avviso, lo zio era un cristiano senza dogmi. Nel 1917 nel suo diario scrive: "Da tre giorni il dubbio mi par pazzesco, la ragione uno strumento diabolico! Davvero che la Fede è grazia e non si può averla senza una completa sfiducia nelle capriole della logica. Il dubbio è antifilosofico". È soprattutto negli ultimi anni che questa sua ricerca diventa più pressante. Scrive meno, quasi nulla per via della malattia. Ma parla. Voleva sapere, conoscere. Trascorrevamo giornate intere a discutere, ad esempio, del Bene e del Male, delle eresie del II secolo dopo Cristo. Non erano discussioni astratte, ma come se volesse avvicinarsi e comprendere questo Altro. Come disse il mio caro amico Carlo Bo, "quel Dio che Montale, come tutti i veri credenti, non nomina mai invano". In mio zio c’era l’idea di un essere superiore, soprattutto aveva una passione per la figura di Cristo. Prima di andare in ospedale, dove sarebbe morto, sul suo comodino di casa aveva una vita di Cristo. E poi, guardi, questo è il santino che Eugenio teneva nel portafoglio: è un’Adorazione dei Magi e sotto la scritta "La bontà di Dio si è manifestata in Cristo"».È un regalo? «No, era nel suo portafoglio. Ora lo tengo sempre nel mio. A un compleanno mi regalò un Vangelo che era la riproduzione anastatica di una versione del Quattrocento. Non le dice nulla che volle sposare la Mosca (la compagna Drusilla Tanzi, ndr) in chiesa? Poco prima di morire chiese al cappellano della clinica San Pio X, dove era ricoverato, di recitare insieme un Padre nostro, anzi il Pater noster perché preferiva il latino. A mio avviso significa che aveva riconosciuto un Padre. Mi sembrano segni di questa ricerca mai sopita e allo stesso tempo mai conclamata, come era del suo carattere: timido e schivo. Qualcosa di intimo che affiora più nelle prose che non nelle poesie. Non si è mai definito ateo. Durante la Prima Guerra mondiale un suo caro amico e commilitone, Ettore Crovella, che poi diventò monsignore, gli regalò un libro con questa dedica: "Caro Eugenio, tu sei molto più vicino a Dio di quanto pensi". E poi quella sua attenzione, quasi invidia verso le persone semplici».In che senso?«Penso innanzitutto alla Gina, la sua governante, morta pochi mesi fa in assoluta povertà. Era una contadina dell’Aretino, a diciott’anni era entrata in casa Montale e con lo zio è rimasta tutta la vita. Una donna di una religiosità semplice, di una bontà e di una rettitudine senza eguali. Parlava poco, ma è stata per lui un modello di vita. In una lettera che Eugenio mi scrisse la definì "eroica". Ogni domenica l’accompagnava a messa e lei lo ha accompagnato dappertutto: a Stoccolma per il ritiro del Premio Nobel, al Quirinale quando ha ricevuto la nomina a senatore a vita. La Gina per me è l’incarnazione di ciò che lui definisce la "decenza umana", cioè compiere la propria missione in qualsiasi campo».Di questo amore aveva invidia?«Sì. La sua è stata una tensione, una sofferenza per questo Invisibile. È mancata la folgorazione della fede. Aveva una sete di conoscenza continua dei temi religiosi. Aveva studiato le grandi eresie: pelagiani, nestoriani. Mentre mal sopportava – e su questo eravamo molto in sintonia – i preti impegnati. Con il suo modo ironico prendeva in giro i sacerdoti in borghese o peggio i preti operai. Ma aveva sempre grande rispetto dei sacerdoti veri».Per la critica, la figura di Montale è legata all’immagine del «muro d’orto invalicabile». La felicità è sempre a un passo, ma irraggiungibile. È il male di vivere.«Questo per me vale fino ai 75 anni. Dopo la ricerca si è fatta più stringente e per questo più silenziosa. Sono convinta che lassù lui ci è arrivato. Anche, ma non solo, per le messe che ho fatto dire per lui».Ma Eugenio Montale credeva in un aldilà?«Altrimenti perché nel testamento mi ha chiesto che sulla sua tomba fosse sempre acceso un lumino? Aggiungendo, da buon ligure: "È una piccola spesa". E una sua poesia in Satura inizia così: "Avevamo studiato per l’aldilà"».
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