Don Latronico, Moro e Cl: in una lettera l'invito a scuola di comunità

Il documento trovato all'archivio della Camera conferma il legame fra il sacerdote lucano (per il quale si è aperta la causa di canonizzazione) e lo statista, che partecipava alla Messa del movimento
August 17, 2025
Don Latronico, Moro e Cl: in una lettera l'invito a scuola di comunità
La lettera di don Tommaso Latronico (in alto a destra) ad Aldo Moro rinvenuta nell'archivio della Camera
Spuntata chissà come, è venuta alla luce qualche giorno fa una lettera del novembre 1974 di don Tommaso Latronico - giovane sacerdote di origini lucane, trasferitosi a Roma per i suoi studi di seminarista - indirizzata ad Aldo Moro, che proprio in quei giorni era impegnato nella formazione del quarto governo a sua guida. La lettera era conservata nell’archivio storico della Camera.
«Carissimo Signor Presidente, le inviamo il fascicolo della Scuola di comunità che sarà tenuta per il Movimento di Comunione e Liberazione domani 17 novembre presso l’Auditorium dell’Agostinianum in via del Sant’Uffizio n. 25 con inizio alle ore 9.30». L’uso del verbo al plurale è indice di un invito fatto a nome del movimento di Roma, e come tale firmato. Lo ricorda molto bene don Donato Perron, sacerdote di origini valdostane col quale il giovane presbitero di Nova Siri era andato ad abitare fin dal trasferimento a Roma. «La “scuola di comunità” – prosegue la lettera - è il momento fondamentale di catechesi per tutto il Movimento, viene proclamata in circa trenta zone d’Italia... ripresa in forma di seminario permanente negli ambienti della scuola, dell’università e del lavoro essa alimenta la presenza culturale e politica della nostra comunità. Le offriamo la traccia della prima Scuola e le comunichiamo le date dei prossimi incontri...Nella speranza di poterla incontrare le confermiamo la nostra comunione e la nostra preghiera».
Moro aveva conosciuto don Latronico già da seminarista al collegio Capranica, dove era ad accoglierlo uno studente che sarebbe diventato il suo confessore, Antonello Mennini, più volte evocato nelle sue lettere dalla prigionia. Alcuni dei seminaristi con cui entrò in contatto avrebbero ottenuto in seguito l’ordinazione episcopale, fra questi il futuro cardinale Arrigo Miglio; Roberto Filippini, vescovo emerito di Pescia; e - nell’ambito di un gruppo di seminaristi espressione delle prime comunità di Cl - vi erano gli attuali vescovi emeriti di Taranto, Filippo Santoro e di Monreale, Michele Pennisi. Quest’ultimo ricorda nitidamente un Moro, al tempo ministro degli Esteri, che arrivava al Collegio su invito del rettore, monsignor Franco Gualdrini, «con il desiderio di confrontarsi con dei giovani che avevano fatto quella scelta trattenendosi in amabile conversazione, a volte fino alle 23». Moro aveva conosciuto Cl nella facoltà di Scienze politiche all’università di Roma, dove insegnava. Fu il loro responsabile, Saverio Allevato, a invitarlo al celebre primo raduno nazionale di Cl al Palalido di Milano, il 31 maggio 1973, dove Moro arrivò a sorpresa e prese posto nel parterre, fra i ragazzi.
Dell’amicizia profonda, e un po’ misteriosa, con don Latronico c’è solo una traccia pubblica, la presenza di Moro in prima fila, alla Chiesa dell’Antonianum, in via Merulana, alla sua ordinazione sacerdotale, nel giugno 1973. In quella stessa chiesa prese a frequentare, non di rado, la messa domenicale di Cl, a Roma. Simpatico e un po’ grottesco il racconto di Corrado Rizzi, di Abbiategrasso, allora militare di leva alla Cecchignola, che si reca a Messa per conoscere la comunità ciellina di Roma e invece gli si fa incontro a fine celebrazione il ministro degli Esteri che si sincera con lui se in caserma lo trattano bene. Curioso anche il ricordo di Marcello Fabbri che vede arrivare Moro a Messa, qualche mese dopo, durante le domeniche a piedi per l’austerity, con l’imbarazzo evidente di aver sbagliato l’abbigliamento, perché il sole ha squarciato le nubi nel lungo tragitto da casa e il cappotto è diventato un peso inutile. Significativo anche il racconto di Lucio Brunelli (futuro vaticanista e direttore di Tv2000, suo allievo a Scienze politiche) di quando vede Moro, divenuto nel frattempo presidente del Consiglio, arrivare a sorpresa in Policlinico al suo capezzale, mentre lui è in pericolo di vita a seguito di un’aggressione rimasta impunita ad opera di un gruppo neofascista. Sollecitato forse proprio da don Latronico, Moro chiese ai sanitari di fare il possibile per salvargli la vita.
In quella lettera don Latronico aveva specificato le date di gennaio, marzo e maggio 1975 fissate per gli incontri di scuola di comunità a Roma. Sarà un anno terribile per CI, quello, soprattutto a seguito di una notizia finita sui giornali, poi rivelatasi del tutto infondata, circa presunti finanziamenti della Cia al movimento. Le minacce e le aggressioni si moltiplicarono anche a Roma, anche sotto gli occhi di Moro, a Scienze Politiche. Questa premura verso Cl, discreta ma fattiva, emerge anche nel racconto di Francesco Cossiga, che rivelò come al suo insediamento da ministro dell’Interno, nel febbraio 1976, si sentì raccomandare da Moro presidente del Consiglio di proteggere i ragazzi di Cl che erano in pericolo all’università e per questo gli scrisse su un ritaglio di giornale, perché prendesse contatto, i numeri di don Giussani e Formigoni. Preoccupazioni non infondate: nel luglio del 1977 sarà gambizzato dalle Brigate rosse Mario Perlini, il papà di due giovani universitari romani di Cl che aiutava la comunità a tenere i conti, scambiato, come scritto nella rivendicazione, per un leader da colpire.
Moro non smise mai di offrire il suo ascolto, il suo incoraggiamento, i suoi consigli, ai ragazzi di Cl che incontrava in università, tanto che a Scienze politiche avvenne, su sua sollecitazione, un esperimento unico per quei tempi, che vide confluire i giovani democristiani nella stessa lista universitaria, con Cl. Nel ricordo di Nicodemo Oliverio (suo allievo in università, poi funzionario della Dc e parlamentare nelle file del Pd) c’è anche un contributo che Moro dava mensilmente (le decime) alla comunità dell’ateneo. Ma - un po' come i discepoli di Emmaus, che riconobbero Gesù nello spezzare il pane – il tratto comune che dà la cifra di questa singolare amicizia fra Moro e Cl, a Roma, non fu certo una comune strategia politica o visione ideologica, ma la condivisione del sacramento dell’Eucaristia, partecipando numerose volte, Moro, nel corso di quegli anni, alla messa della comunità di Roma, la domenica, in qualche caso in compagnia di Vittorio Bachelet.
Per Moro, d’altronde, la fede – un po’ come nell’insegnamento di don Giussani - non è un alimento al quale attingere nei momenti più rilassati della vita, ma un faro che illumina la vita nel suo svolgersi, e si fa strada anzi con particolare evidenza proprio nel pieno delle prove che la vita impone. Se immaginiamo Moro, la sera prima del rapimento (che era per lui, ignaro del suo destino, la vigilia del delicatissimo voto di fiducia, per il governo di solidarietà nazionale) trovato dal figlio Giovanni, rincasato molto tardi, immerso nella lettura del libro Il Dio crocifisso del teologo protestante Jürgen Moltmann, forse possiamo meglio intuire a che livello sia scattata la singolare predilezione di Moro per questo giovane sacerdote lucano.
Don Latronico è scomparso a soli 45 anni, nel 1993, a seguito di una malattia breve e fulminante e da qualche anno si è aperto per lui il processo di canonizzazione. La discrezione di quella sua lettera - al pari di tutto il rapporto che Moro mantenne con Cl, a Roma - dopo più di mezzo secolo, ci dice due cose, soprattutto. La prima - dal lato del destinatario - è la distanza della politica di Moro da quella che va per la maggiore oggi nell'era dei social, in cui ogni gesto, anche il più insignificante, va pubblicizzato, se possibile in diretta, in ragione del tornaconto che può portare in termini di consensi. La seconda, dal lato del mittente, ci racconta della sensibilità di don Latronico verso il bisogno che un credente operante in politica ha, nel suo impegno per il bene comune, di non esser lasciato solo, come un mero erogatore di servizi o “favori” alle prese con "la più alta forma di carità", ma anche con una delle più formidabili tentazioni: l'esercizio del potere. Esigenza, questa, di recente riportata alla luce dalla Settimana sociale di Trieste, dedicata alla democrazia.

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