giovedì 20 dicembre 2018
In questo alfabeto degli affetti, vorrei partire rendendo per prima cosa giustizia alla tenerezza, sentimento più complesso e certo anche più importante di quello che a prima vista può apparire, quando viene svilito a sentimento sdolcinato e stucchevole.
Esiste in primo luogo una tenerezza “facile”: quel sentimento dolce e naturale che proviamo per tutto quello che ci appare prezioso e insieme vulnerabile, vivo e nuovo. È la tenerezza per il bambino, per il suo stato di integrità e di grazia: il bambino è indifeso, è bisognoso, si affida; c'è in lui la bellezza che hanno le cose nuove, che ci appaiono quanto più possibile lontane dalla morte. Come per il bambino, proviamo infatti tenerezza anche per la maggior parte degli altri cuccioli, nella loro condizione di innocenza e bellezza che suscitano in noi una sorta di stupore e di sollecitudine. È proprio la tenerezza che ci muove a proteggere, a preservare e a prenderci cura della vita indifesa, dandole il tempo di crescere, protetta dalla penombra della nostra cura.
Ma la tenerezza funziona anche come porta d'accesso verso tutte le relazioni che hanno un valore, e può aiutarci ad intuire la distanza “giusta” da tenere nei gesti, nelle parole, negli sguardi: quella distanza “di rispetto” che permette all'altro di sentirsi amato, ma non fagocitato o annullato dal nostro amore. In questo senso, la sua funzione è cruciale nei rapporti d'amore e nel sesso, perché è la sua presenza che ci permette di percepire la preziosità dell'altro nella sua nudità: ci permette di guardare senza svelare, di ascoltare senza approfittarci della confidenza; ci guida ad avere uno sguardo capace di medicare la fragilità inevitabile di chi si consegna nudo e inerme. La passione vuole appropriarsi dell'oggetto, come un fuoco che lo consuma: solo la tenerezza ci permette di preservarlo. Ci rende capaci anche, se occorre, di un silenzio buono, abitato; capaci di integrare con benevolenza l'imperfezione e il limite che ci si svelano.
Il sesso senza tenerezza si fa più aspro, diventa appropriazione e può contaminarsi di elementi pornografici; ma anche l'amore per i bambini, senza una tenerezza che è rispetto, si corrompe, mostrando quel lato inquietante che la cronaca ci rimanda con sempre più frequenti notizie di maltrattamenti e abusi.
Esiste però anche un altro capitolo, che merita riflessione. Nelle nostra cultura anche la vulnerabilità del vecchio, del malato e dell'handicappato hanno avuto per secoli diritto alla tenerezza, perché associate ad un'idea di valore: il cristianesimo ci ha insegnato che il volto dell'uomo rispecchia sempre il volto di Dio, e ancor più lo rispecchia se è un volto ferito, umiliato dalla vecchiaia o dalla malattia, perché il nostro Dio è il Dio di Gesù Cristo, morto umiliato su una croce. Niente è più prezioso del suo corpo ferito, e niente è più vulnerabile. Niente merita altrettanta tenerezza. In forza di questa tenerezza per Lui sono state possibili altre tenerezze, capaci di andare al di là del disagio per la morte, che la vecchiaia e la malattia suggeriscono. Tutto ciò che si collega alla morte induce nell'uomo difesa e negazione, e ci porta a distogliere lo sguardo e ad allontanarci in fretta; solo guardare al di là dell'apparenza permette di non fuggire: il cristianesimo, che guarda al di là di ciò che appare, ha potuto insegnare agli uomini la tenerezza possibile in ogni condizione o momento di vita, perché ci ha insegnato che siamo tutti, indistintamente e sempre, vulnerabili ma infinitamente preziosi agli occhi di Dio.
È una tenerezza che può allargarsi a tutto ciò che è umano, per il fatto stesso di essere umano; una tenerezza che va purtroppo scomparendo e della quale sentiamo tutti una profonda nostalgia.
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