Ma il critico dev'essere obiettivo? No Ecco Virginia Woolf sull'«Ulisse» di Joyce
Siamo abituati a pensare che la critica letteraria deve essere obiettiva e non soggettiva. Ma l'io del critico e del recensore può mascherarsi e nascondersi, non cancellarsi. In ogni interpretazione e valutazione, come in ogni modo di leggere un libro, c'è sempre qualcosa di personale. È meglio, perciò, che il critico metta in gioco e dichiari le sue ragioni. È meglio, cioè, che una recensione e tanto più un saggio conservino, almeno in qualche punto, il tono di un diario di lettura. Non chiederei mai a un critico di avere ragione o di dire la cosa "giusta", ma di farmi capire bene quello che pensa di un libro e quello che ha provato leggendolo, anche se non posso condividerlo. Per farmelo capire bene può compiere lunghe analisi o essere brillantemente sbrigativo: quello che conta è che la soggettività della sua lettura contenga abbastanza oggettività da farmi vedere un autore o un libro non come un prodotto della sua immaginazione culturale e dei suoi desideri, ma come qualcosa che ha realmente incontrato e che anch'io posso incontrare.
Ho annotato queste considerazioni così poco originali leggendo nel Diario di una scrittrice di Virginia Woolf (appena uscito da Minimum fax) le impressioni e le reazioni provocate in lei dall'Ulisse di Joyce: «Mercoledì, 6 settembre (1922). Ho terminato l'Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso ovvio, ma nel senso letterario (") Mi ricorda di continuo un collegiale inesperto, pieno di spirito e di ingegno, ma così consapevole di sé, così egocentrico che perde la testa, diventa stravagante, manierato, chiassoso, smanioso, suscita pietà nelle persone benevole, e in quelle severe semplice noia». Non importa che la Woolf abbia ragione o torto. Ma rivela qualcosa di vero sia di Joyce che di se stessa.
Ho annotato queste considerazioni così poco originali leggendo nel Diario di una scrittrice di Virginia Woolf (appena uscito da Minimum fax) le impressioni e le reazioni provocate in lei dall'Ulisse di Joyce: «Mercoledì, 6 settembre (1922). Ho terminato l'Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso ovvio, ma nel senso letterario (") Mi ricorda di continuo un collegiale inesperto, pieno di spirito e di ingegno, ma così consapevole di sé, così egocentrico che perde la testa, diventa stravagante, manierato, chiassoso, smanioso, suscita pietà nelle persone benevole, e in quelle severe semplice noia». Non importa che la Woolf abbia ragione o torto. Ma rivela qualcosa di vero sia di Joyce che di se stessa.
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