sabato 24 settembre 2011
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Tre differenti manifestazioni di debolezza si sono confrontate ieri pomeriggio al Palazzo di Vetro a New York: quella di Barack Obama, quella di Abu Mazen e quella di Benjamin Netanyahu nella schermaglia diplomatica che ha visto il presidente dell’Anm reclamare di fronte all’assemblea generale dell’Onu la richiesta di riconoscimento e ammissione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 con Gerusalemme Est capitale. Tutti e tre gli attori erano e rimangono prigionieri del proprio ruolo e della propria riconosciuta impotenza, nonostante il tripudio e il giubilo che da Ramallah a Gaza ha salutato una giornata che a suo modo si può considerare storica.Impotente è a tutti gli effetti Obama, erede degli sforzi diplomatici di Bill Clinton ma costretto alla minaccia del veto per garantire l’inscalfibile alleanza con Israele e avvolto dal risentimento di chi gli rimprovera che dopo due anni e mezzo di mandato non è stato in grado di onorare minimamente la promessa di far ripartire il negoziato di pace. Impotente è Netanyahu, costretto dagli eventi (l’incertezza ai confini meridionali con l’Egitto, divenuto alleato freddo e infido, il vento poco rassicurante delle primavere arabe e dell’instabilità siriana) e da una sorta di forzata miopia politica (soprattutto per la coabitazione con l’alleato Liebermann) a compiere passi e gesti che vanno in direzione opposta al sentiero di pace auspicato dal club delle nazioni che sostengono la necessità di una road map. E impotente infine, nonostante la scaltrezza che gli si riconosce, è lo stesso Abu Mazen (erede di quello Yasser Arafat che alla pace con Israele pensava assai poco e che al negoziato preferiva l’intifada e lo scontro), il quale è ben conscio che non porterà mai a casa un riconoscimento pieno dello Stato palestinese, certezza che gli offre l’unica via politicamente spendibile per il suo popolo: un dignitoso vittimismo, su cui poi soffierà con ben più sulfurea veemenza quella non piccola parte di palestinesi che si riconoscono in Hamas.Ma proprio perché Abu Mazen si differenzia marcatamente dal suo predecessore tumulato alla Muqata (chi non ricorda la celebre frase di Arafat di fronte all’assemblea nel 1974: «Vengo qui con un fucile e un ramo d’ulivo: non lasciate che il ramoscello cada dalla mia mano», per poi però affossare il piano di pace di Bill Clinton del 1993 aprendo la strada a anni di odio?), la sua strategia basata sulla non violenza e sulla necessità di un piano simile a quello messo a punto dall’amministrazione Clinton potrebbe – per uno dei tanti paradossi della Storia – rivelarsi l’unica percorribile. Già, perché proprio a causa del prevedibile rifiuto israeliano e dell’inevitabile veto americano nel caso di una votazione al Consiglio di sicurezza i contendenti si vedranno costretti a ritornare sulla strada del negoziato. Strada impervia, già infinite volte battuta e infinite volte interrotta dall’odio, dalla violenza e dalla cecità ora dell’una ora dell’altra parte. L’unica però, che si possa percorrere assieme. Tutte le altre – sessant’anni di storia lastricata di lutti e sangue stanno a dimostrarlo – non hanno portato da nessuna parte. Non a caso il Quartetto costituito da Onu, Stati Uniti, Russia e Unione Europea ha rispolverato in tutta fretta la speranza di un accordo in extremis con Israele perché i negoziati riprendano, nonostante nella grande aula dai marmi verdi del Palazzo di Vetro fossero risuonate parole di reciproca intolleranza, accuse incrociate, financo la minaccia palestinese – nel caso gli venisse riconosciuto lo status di "osservatore" – di potersi rivolgere al Tribunale internazionale per mettere sotto accusa la leadership israeliana e – da ultimo – la sonora bocciatura di Hamas, che a un tavolo di negoziati non si vorrà mai sedere. Dice Netanyahu: «Se veramente vogliamo la fine del conflitto perché non possiamo incontrarci oggi e negoziare la pace?» Sperare in un successo che nasca da una somma di debolezze non è esattamente una visione ottimistica. Ma purtroppo è l’unica di cui disponiamo.
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