giovedì 20 marzo 2014
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La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha detto un secco "no" all’equivalenza fra maternità naturale e maternità surrogata. Lo ha detto ai giudici di Irlanda e del Regno Unito, che avevano chiesto lumi sui diritti che le norme comunitarie assegnano alle lavoratrici gestanti: è giusta una legge nazionale che mentre dà alla madre il congedo retribuito non lo dà alla donna che ottiene un figlio per surrogazione? Non è forse una discriminazione? No, dice la Corte. Nessuna discriminazione, non è la stessa cosa la gravidanza e il parto di un figlio e il condurre a casa propria, come figlio, il figlio partorito da un’altra donna. Le norme comunitarie dettano una tutela specifica; le varie leggi nazionali possono ampliarla, se vogliono; ma non vi sono obbligate.La sentenza giunge in un momento in cui la riflessione sulla vita prodotta con gli artifici del laboratorio, e in specie quella che viene trattata ormai con le categorie contrattuali dello scambio (acquisto di gameti, affitto di utero, committenza e surrogazione) e persino del commercio, col denaro che lega tutto, prende coscienza dei suoi crescenti spinosi grovigli.Nel gioco delle parti, fra il desiderio del figlio realizzato a qualunque prezzo e lo scambio del corpo che lo accoglie, lo forma, lo partorisce, a volte per inverso desiderio d’un prezzo che attenui la miseria, per noi prende figura eminente il volto del bambino. È lui il protagonista dell’intera vicenda; è lui che dopo esser stato negoziato come un "oggetto" nelle stipulazioni adulte emerge infine come il soggetto che ridisegna per gli adulti le relazioni necessarie alla sua vita. È nota l’acrobazia con cui il tribunale di Milano, qualche tempo fa, ha assolto una coppia italiana che aveva portato a casa dall’Ucraina un bambino procurandosi l’ovulo di un’altra donna e affittando l’utero di una terza donna fino al parto. Ma l’accusa era quella di avere alterato con falsità lo stato civile del neonato, registrato a Kiev. Il divieto della maternità surrogata per la legge italiana (e per la gran parte dei Paesi dell’Unione, con rare eccezioni per forme gratuite) resta fermo.Ma nelle leggi di quei Paesi dell’Est europeo, e fuori d’Europa (ad esempio in India) dove la contrattazione per il figlio da portare in grembo e poi cedere ai committenti incrocia la povertà e i rischi di sfruttamento, si fa strada il mercato. Ma "mercato" è parola adatta alle merci, e un figlio non è merce, e non lo è un grembo di madre. Nondimeno, quando il figlio c’è, e viene per così dire "importato" a casa dei genitori committenti, e la madre surrogata non ha lasciato traccia della sua identità, che fare? In tutta Europa si sta cercando risposta acconcia al problema della maternità surrogata transfrontaliera, che aggira l’illegalità d’origine trovando legalità nel luogo dove il bimbo nasce. Quale sarà lo status giuridico di questo bambino che la legge (o una sentenza) del Paese di nascita dice figlio dei committenti? Crediamo che la risposta di giustizia debba cercarsi nel best interest, il primario interesse, del bambino, che è criterio giuridico preminente.Al tempo stesso, nei rapporti internazionali si dovrebbe cercare uno spazio giuridico uniforme, a dissuadere il mercato della vita tra le frontiere. È questo il nocciolo, è lo sguardo sulla dignità violata del figlio, la dignità violata della donna che lo ha in grembo per darlo via. I benefit dei congedi parentali potranno forse esplorare tutte le analogie che vogliono. La maternità no, la maternità "umana", intendo.
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