venerdì 31 ottobre 2008
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Dov'era, ieri, il futuro della scuola e delle università italiane? Per le vie di Roma ribollenti di proteste e slogan studenteschi e sindacali o nei primi dettagli del piano per gli atenei che il ministro della pubblica istruzione, dell'università e della ricerca si appresta a presentare? Nell'articolato ancora fresco d'approvazione della legge che da Maria Stella Gelmini prende nome o nell'annunciato referendum abrogativo di quello stesso testo? Nelle nuove assegnazioni di fondi che la Finanziaria 2009 sta per fissare o nell'ennesimo e feroce braccio di ferro tra Regioni e Stato che i governatori (o i loro assessori) preconizzano e i ministri minacciano di affrontare a colpi di «commissariamento» degli enti locali? La risposta non è semplice, ma neppure impossibile. Perché il futuro della scuola e dell'università " e, dunque, buona parte del futuro dell'Italia " passa persino drammaticamente un po' per tutti questi eventi anche se in nessuno di essi si esaurisce. Ma, soprattutto, perché per ragionare seriamente di futuro è indispensabile uno sforzo che in queste ore può apparire titanico: proiettarsi oltre le guerre e guerricciole di posizione che stanno infuriando, per guardare davvero in avanti. Serve, insomma, archiviare supponenze governative e demagogie oppositorie. Serve aprire canali di comunicazione e riaprire tavoli di confronto. Riprendiamo e ampliamo, perciò, il filo della riflessione che abbiamo già avviato a caldo. Partendo da una constatazione che a qualcuno apparirà forse ovvia, ma che " nel cozzo di opposte rigidità " temiamo si corra il rischio di tralasciare: il mantenimento dello status quo nei vari livelli del "pianeta istruzione" sarebbe solo una jattura per studenti, famiglie e docenti. Nella scuola e nell'università " lo hanno argomentato anche illustri professori: da Luca Ricolfi a Francesco Giavazzi a Luigi Frati " spese e costumi accademici devono essere rivisti e corretti, e ci sono i margini per farlo. Se è vero, infatti, che i "tagli" non sono mai una riforma, è altrettanto vero che, spesso, ne sono la necessaria premessa. O qualcuno pensa che, altrimenti, cambierebbero registro «autonomamente» coloro che hanno consentito nascita e oneroso radicamento di corsi di laurea con iscritti che si contano sulle dita di una sola mano, hanno lasciato gonfiare a dismisura il rosso dei bilanci di istituti e atenei, hanno contribuito a far esplodere (e magari pilotato) il precariato degli insegnanti? Ieri mattina, poi, bastava scorrere le prime pagine dei giornali per rendersi conto che certa informazione (anche quella " spiace notarlo " legata al Pd) appare falsata dalla rimozione dei problemi realmente sul tappeto e dal ricorso ai soliti e ideologici luoghi comuni, a cominciare " manco a dirlo " dall'invettiva sul «denaro pubblico alle scuole private». È la spia di una pervicace volontà di continuare a rimandare sine die il momento in cui anche in questo nostro Paese si potrà ragionare con serenità sulla strutturazione di un sistema pubblico d'istruzione fondato, secondo standard adeguati e comuni come accade in tutte le grandi e libere democrazie, sulle scuole dello Stato e su quelle della società. Il caso istruzione è, insomma, tutt'altro che risolto. È evidente, infatti, che i problemi sinora emersi sono solo l'incipit di un discorso che va articolato compiutamente. Qualcuno " per esempio il Foglio " ha auspicato, per cominciare a scrivere pagine nuove e utili, la convocazione degli «stati generali della scuola». È un altro modo per sollecitare un'idea forte, e cambi di passo e di metodo nella gestione di un dossier arroventatosi oltremodo. Per invitare a scrutare senza paraocchi l'oggi e a orientare lo sguardo al domani. È un buon consiglio, per tutti. E visto che per arrivare agli «stati generali» servirà un percorso di buone volontà e di buone politiche, è bene che si parta subito. La prima mossa, ovviamente, spetta a chi governa.
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