sabato 27 giugno 2015
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Il terrorismo non può vincere la sua guerra direttamente con le armi di cui dispone. I Paesi che vi si oppongono sono ancora enormemente più forti e organizzati. Ma gli strumenti subdoli, efferati e mediatici di cui oggi dispone lo rendono estremamente pericoloso anche quando si affida a sabotatori improvvisati come è accaduto nell’attacco compiuto ieri mattina in Francia, mentre tragicamente ben più preparati erano i killer che sono entrati in azione seminando morte e distruzioni sulle spiagge della Tunisia e in una moschea del Kuwait. Tre orribili ed esecrabili attentati probabilmente non coordinati, in un venerdì di Ramadan, ma certamente ispirati dal contagio che il Califfato sta suscitando in molte delle comunità musulmane mondiali. Con il terrore – dopo la strage del Museo Bardo un’orribile mattenza agli hotel degli stranieri – si può mettere in ginocchio l’economia di un intero Paese che dipende dal turismo e creare le condizioni sociali perché i giovani siano facili prede della predicazione fondamentalista. Nel laboratorio Tunisia, dove un islam "laico" sta cercando di segnare la via anche per altri Paesi dell’area, i colpi inferti da pochi fanatici a raffiche di kalashnikov, oltre ai lutti e al dolore, potrebbero produrre ripercussioni politiche e strategiche di vasta portata, come è negli obiettivi più dei pianificatori che degli esecutori.In Francia, a meno di sei mesi dall’eccidio di "Charlie Hebdo", si rinnova lo scenario di un cittadino francese non integrato che sceglie un obiettivo di forte impatto (un deposito di gas) e introduce in Europa il macabro rituale della decapitazione nel tentativo di instillare la paura e, soprattutto, mettere in moto meccanismi reattivi che possano creare destabilizzazione. La nazione che aveva dimostrato orgogliosa compattezza nell’imponente marcia repubblicana dell’11 gennaio si è andata dividendo sulla via da prendere di fronte alle minacce alla libertà e alle spinte radicali. La crescita del Front national e degli impulsi xenofobi, alimentati anche dagli attacchi terroristici di matrice musulmana, rischiano di provocare, a loro volta, una risposta di rifiuto e di estraneità da parte di coloro che sono più esposti alle sirene del terrorismo. Per il Kuwait, finora non toccato dall’offensiva dell’Is, le considerazioni sono in parte diverse. Qui si è estesa quella guerra fratricida tutta interna al mondo musulmano, che porta i sunniti dello Stato islamico ad avere come primo e fondativo scopo la distruzione dello sciismo. Ciò, fra l’altro, rende estremamente complicato costituire in Medio Oriente una solida alleanza anti-Califfato, dato che quest’ultimo rappresenta per i sunniti una spina nel fianco dei loro nemici giurati, la Siria di Assad e l’Iran degli ayatollah. Di fronte allo sgomento che i sanguinosi attacchi sempre suscitano, la condanna e la fermezza, doverose e mai troppo ribadite, sono una prima ma insufficiente risposta se non si abbinano a una controffensiva lucida e più decisa, sfaccettata ed efficace da parte della comunità internazionale. Che non basti l’intelligence a fermare tutti i "cani sciolti" è un dato di fatto. Allora si deve agire, ad esempio, perché la Tunisia non resti sola, isolata, sempre più povera ed esportatrice su larga scala – come già sta diventando – di jihadisti pronti ad "arruolarsi" all’estero pur di lasciare il proprio Paese. Costa, ovviamente, ma è un investimento in sicurezza anche per noi occidentali. Altrettanto importanti sono gli sforzi - anche militari - per spegnere il "faro" di quest’ondata di terrorismo emulativo, lo Stato islamico, che proprio lunedì potrà festeggiare il primo anno di vita dalla sua proclamazione. La sottovalutazione interessata da parte delle potenze regionali, con l’obiettivo neppure tanto recondito di ottenere lo smembramento di fatto di Siria e Iraq, ha permesso al Califfato di imporsi come entità riconosciuta per efficienza e brutalità trasmesse via Web con tecniche raffinate su scala globale.   E anche la rassegnata e colpevole accettazione della pulizia religiosa che sta provocando l’esodo di cristiani e altre minoranze aumenta la protervia e l’espansione dell’Is.  Infine, la frequente incapacità dello stesse comunità musulmane di isolare i fondamentalisti, prima modalità in Europa per spuntare le armi del terrore, impone di aumentare i tentativi di dialogo con quelle comunità, per un comune percorso verso la tolleranza e il rispetto. Un risultato cui possono contribuire scelte chiare anche sul terreno delle politiche di accoglienza e di diritto di asilo. Tutto ciò senza che si debba cedere a posizioni buoniste e remissive quando serva contrastare (e censurare) discorsi o comportamenti capaci di minacciare le regole della convivenza che ci siamo dati e che vogliamo difendere contro i nuovi nemici della civiltà.  Chi distrugge i luoghi di culto e le opere d’arte, chi spara su turisti inermi seduti al sole, chi mozza teste e fa esplodere fabbriche non può ottenere alcun tipo di cittadinanza. E per non cedere al ricatto del terrorismo dobbiamo vincere la paura senza cedere all’irrazionalità o alla rabbia. Solo una determinata e lucida reazione può abbreviare la guerra dell’angoscia, del sospetto e dell’odio, che non possiamo perdere.
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