venerdì 30 gennaio 2009
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Il rinvio delle elezioni presidenziali, previ­ste a maggio e ora fissate ad agosto per problemi di sicurezza e organizzativi, è sol­tanto l’ultimo segnale delle crescenti diffi­coltà in Afghanistan. E del peggioramento dei rapporti fra il presidente Hamid Karzai e gli Stati Uniti. Nel dicembre 2001, Karzai era stato scelto da Washington come l’uomo giusto per com­piere la transizione dal regime dei taleban a un nuovo Afghanistan, moderato, democra­tico e amico dell’Occidente. Un percorso non facile, ma sul quale si erano impegnati gli U­sa e l’intera comunità internazionale, con la Nato divenuta negli anni il braccio armato per combattere i gruppi di taleban ancora at­tivi e sostenere la stabilizzazione del gover­no di Kabul. La difficile scommessa, pur­troppo, non è stata ancora vinta, e da tempo la situazione nella regione appare estrema­mente problematica. Come sempre in questi casi, i vari attori si scambiano accuse reciproche. L’Occidente contesta al governo – sempre meno velata­mente – di aver deluso le attese, reggendo il Paese in modo corrotto e inefficiente, dissi­pando i fondi internazionali senza dare esi­to alla ricostruzione, mostrandosi incapace di pacificare i rapporti fra le varie comunità etniche e religiose e di promuovere la de­mocrazia. Infine, il traffico di droga è tor­nato a crescere senza opposizioni, ripor­tando l’Afghanistan a essere il maggiore produttore mondiale di oppio. Tutte impu­tazioni senza dubbio fondate. Da parte sua, Karzai sottolinea la disatten­zione statunitense e internazionale verso il Paese – soprattutto dopo l’invasione del-­l’Iraq nel 2003 –, lo scarso impegno finan­ziario per la ripresa economica e i fallimen­ti militari di Washington e della Nato nel combattere i risorgenti taleban. È questo un punto di contrasto crescente. Nei giorni scorsi, il presidente ha inaugurato la sessio­ne invernale del Parlamento con un attacco senza precedenti alla strategia occidentale, incolpando l’Alleanza atlantica di fare trop­pe vittime civili – senza peraltro sconfigge­re i comuni nemici – e di condurre le ope­razioni bypassando il suo governo. Kabul vuole anche negoziare un nuovo accordo con la Nato, in modo da limitarne l’autono­mia operativa, in particolare nel dispiega­mento delle forze militari sul terreno. Per molti si tratta di un chiaro avviso agli Sta­ti Uniti: i vertici afghani sono scettici rispet­to al cosiddetto Surge, l’aumento di truppe combattenti americane in Afghanistan: una strategia mutuata dall’Iraq su cui punta Ba­rack Obama per battere la guerriglia di ma­trice islamica. Karzai vorrebbe che i nuovi soldati occidentali fossero destinati a sigilla­re la porosa frontiera con il Pakistan, Paese in cui spesso i taleban trovano rifugio. Ma que­sta mossa inasprirebbe ancor più le tensioni con il governo di Islamabad, preoccupato dal­la politica di Kabul e ancor più dagli stretti legami che quel governo sta stringendo con l’India, nemico storico del Pakistan. Certo è che le perplessità di Karzai imbaraz­zano e irritano Washington, oltre a rafforza­re le voci di quei Paesi Nato – come Francia e Germania – che sembrano voler puntare su una soluzione 'politica' più che militare al conflitto con i taleban. Di qui il sospetto cre­scente che l’attuale presidente non sia più l’uomo giusto per l’Afghanistan e la sua per­manenza al potere risulti ormai contropro­ducente per gli obiettivi di ricostruzione e stabilizzazione. Tuttavia, non sembrano esi­stere molte alternative credibili da proporre all’opinione pubblica internazionale, né al­tri uomini politici capaci di gestire un esecu­tivo espressione di fragili equilibri di potere inter-tribali e inter-etnici. Abbandonare Kar­zai potrebbe inoltre essere percepito come l’ennesimo fallimento delle politiche di Wa­shington in Medio Oriente. Soprattutto, il presidente non ha alcuna in­tenzione di lasciare il potere e intende lotta­re per venire rieletto. Sa bene di essere meno amato e stimato di un tempo, ma è convinto di rimanere necessario.
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