Mario Draghi e la bicicletta di Jean Monnet all'ultima tappa
venerdì 14 luglio 2023

La bicicletta di Jean Monnet è giunta all’ultima tappa: quello dei trattati europei. Lo sprint in vista del voto, la “coltellata” finale per i ciclisti, è stato lanciato mercoledì da Mario Draghi con la sua lectio magistralis al National Bureau of Economic Research di Cambridge, in Massachussetts. Questa, dagli scritti di Jean Monnet, è fuor di metafora la bicicletta: «Questa Europa non si farà, se non passo dopo passo con realizzazioni concrete». Una bicicletta che, avvertiva l’ex governatore della Bce ed ex premier italiano, non può restare ferma o «altrimenti cadiamo».

Decisamente importante e tutto politico, dopo un anno di silenzio e oltre Oceano, il primo intervento del “tecnico” Mario Draghi che può essere considerato il manifesto degli europeisti contro l’avanzata nazional- populista che mira, con il voto di qui a un anno, a cambiare indirizzo al governo di Bruxelles. Torniamo alla bicicletta di Jean Monnet, l’economista francese che ispirò e preparò la “dichiarazione Schuman”, pietra fondante dell’integrazione europea secondo una concezione funzionalista, cioè dei piccoli passi concreti. Un approccio federalista nel 1950 sarebbe stato una forzatura e Monnet progettava una integrazione dei Paesi europei prima sul piano economico, poi del mercato e dei capitali, fino alla moneta unica. Un lungo percorso che ora, si può dedurre dalla lezione di mister “whatever il takes” (“tutto ciò che serve”), parrebbe 70 anni dopo giunto al termine. Ma la vecchia bicicletta di Monnet - l’Unione Europea - giunta sin qui, non può restare ferma, a rischio di cadere rovinosamente a terra con tutte le sue istituzioni.

Un intervento tutto politico per segnare l’ora di una svolta nell’europeismo sinora detto dai suoi detrattori dei “tecnocrati”. Ecco in sintesi il Draghi pensiero. Sinora non si sono mai «affrontati così tanti obiettivi sovranazionali condivisi come in passato » annota l’ex premier: siamo di fronte, in contemporanea, alla transizione verde, a quella geopolitica e a quella della difesa comune. Sfide che richiedono un approccio sovranazionale sia per l’entità delle risorse richieste – 600 miliardi di euro l’anno fino al 2030 messi in campo dalla Commissione per il cosiddetto Green deal – sia per il rischio cui il «disaccoppiamento Usa-Cina», citando sempre l’ex governatore, ci espone. La crisi del gas russo, incubo della scorsa estate, è il riferimento sottinteso all’invito al riorientamento degli investimenti nella ricerca di nuovi partner strategici. E ancora, dopo 17 mesi di guerra in Ucraina - secondo lo schema storico di un processo di integrazione che avanza non regolarmente ma a strappi per crisi successive – «dobbiamo compiere una transizione verso una difesa comune europea molto più forte»: insomma la necessità di un esercito europeo, figlio per forza di una vera politica estera europea evidentemente ancora tutta da venire.

La sfida, nella visione di Draghi, è ora principalmente di una politica economica che sappia rispondere alla domanda, semplice quando dirompente, sul che fare quando il recovery plan sarà terminato? Un vero bivio politico europeo, ha tratteggiato Draghi nel suo intervento, che potrebbe da un lato allentare le norme sugli aiuti agli stati con un evidente rischio di «frammentazione». Oppure il post Next generation Eu potrebbe essere una opportunità da cogliere per «ridefinire l’Ue, il suo quadro fiscale e il suo processo decisionale». Ed, ecco l’affondo di Mario Draghi, «regole fiscali veramente credibili» impongono il ripensamento del potere centrale con «devoluzione di potere» al centro. Questo impone di avviare un processo politico che porti alla «modifica dei Trattati » europei. È il progetto di una Costituzione europea bocciata nel 2005 con i referendum popolari in Francia e Olanda e da allora accantonato. «Sono convinto – ha affermato Draghi – che gli europei siano più pronti di 20 anni fa a imboccare questa rotta, perché oggi hanno soltanto tre opzioni: la paralisi, l’uscita o l’integrazione ». Un contesto che necessita di rivedere i trattati europei. Draghi non lo nomina ma il primo passo che si impone, nella volata verso questo traguardo, è la revisione del processo decisionale all’unanimità tra i Ventisette che di fatto paralizza con un veto indiretto ogni scelta decisiva, come ad esempio quella sulla pressante questione migratoria. Un “qui si rifà l’Europa o si muore”, sia pure suonato sul felpato spartito di un intervento accademico.

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