sabato 11 giugno 2011
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Molti si chiedono che fine farà il governo, dopo il voto referendario di domani e dopodomani. Noi ci chiediamo, soprattutto, che piega prenderà il governo delle grandi questioni che sono sottoposte a referendum. Crediamo, infatti, che questo sia il punto. Così come crediamo che sia stato un serio errore far perdere di vista la complessità delle materie e delle scelte proposte alla valutazione diretta dei cittadini–elettori: la gestione (non la proprietà) dell’acqua e dei servizi pubblici – se cioè debba essere svolta a cura esclusiva delle amministrazioni pubbliche o possa vedere la partecipazione (sussidiaria e ben regolata) dei privati – tanto quanto la pianificazione energetica nazionale e il ruolo che in essa potrà o non potrà avere (per almeno altri cinque anni) il nucleare “civile”. Temi di tale portata avrebbero meritato molte attenzioni, dettagliate informazioni e nessuno slogan preconfezionato. Questo, per la nostra parte, abbiamo cercato di offrire con rigore e completezza ai nostri lettori nei giorni scorsi. Ma ci rendiamo conto che è stato, per molti versi, un remare contro corrente. Anche perché un altro errore capitale è stato compiuto.Tutti i quesiti hanno finito per essere iper–politicizzati, e la presenza tra essi di quello – obiettivamente ad alto tasso politico e quasi con nome e cognome scritti sulla scheda, come già prima nella legge – relativo al “legittimo impedimento” del presidente del Consiglio e dei ministri eventualmente sottoposti a processo spiega solo in una certa misura questo deragliamento di senso. A esso ha contribuito molto, come abbiamo appena sottolineato, l’eccesso di semplificazione sui contenuti strategici per il futuro dell’Italia degli altri tre importantissimi quesiti, ma infinitamente di più ha pesato l’esito del voto amministrativo di maggio e l’uso, pur comprensibile, che ne è stato tentato. Si sono, infatti, ingenerate ed esaltate la retorica e l’ambizione concreta della possibile e definitiva “spallata-bis” al non più esattamente saldissimo governo guidato da Silvio Berlusconi. Con il paradosso che le sorti del premier – e, a cascata, quelle dell’esecutivo e della legislatura, nonché delle possibili alternative all’attuale bipolarismo – sono state idealmente affidate a un azzardo: la scommessa sul raggiungimento del quorum. Questo potrà indubbiamente avere un effetto mobilitante su settori significativi dell’opinione pubblica già alternativi od orientati polemicamente nei confronti del governo di centrodestra, ma è francamente difficile immaginare un modo più efficace per disincentivare la partecipazione al voto di una parte almeno altrettanto significativa dell’elettorato…Francamente – e su queste colonne l’abbiamo detto sin dal primo momento con l’analisi di Sergio Soave e, ancora ieri, con il richiamo di Claudio Gentili a ragionare in modo sensato e conseguente sul «bene comune» – si poteva evitare di riproporre per l’ennesima volta il rito stantio (e, si spera, finalmente in via di superamento) del plebiscito pro o contro il Cavaliere. Il referendum, stavolta, avrebbe dovuto e potuto essere su altro. Sulle sue cruciali materie proprie. E avrebbe dovuto e potuto diventare l’occasione per cogliere la ricchezza e la varietà delle posizioni e valutazioni presenti dentro i partiti e nella società italiana sul tema della collaborazione tra pubblico e privato, tra statale e non statale, per realizzare – e condividere – «bene comune».Avrebbe potuto e dovuto essere, alla fin fine, una “provocazione” per ragionare a fondo sulla saldezza non di un governo pro tempore, ma delle basi del nostro Stato e della nostra democrazia. Perché solo chi pensa di vivere in uno Stato e in una democrazia incapaci di assicurare regole di civiltà, di saggia precauzione e di accesso universale a beni e a produzioni essenziali è indotto a fare scelte segnate dalla paura, dalla sfiducia e dal sospetto. Perché solo chi si rende conto di vivere in uno Stato e in una democrazia esitanti nel riconoscere valori solidi, fondanti e «non negoziabili» si sente – in quanto persona e cittadino – vulnerabile ed “espropriabile”.Questa è, in fondo, la domanda ingombrante che sta dentro i referendum ed è stata messa tra parentesi: pensiamo di vivere in un’Italia civile e capace di preparare e regolare virtuosamente, sulla base di quegli esigenti e non strumentalizzabili valori di «ecologia umana» richiamati anche ieri da Papa Benedetto, il suo presente e il suo futuro? Non sapremmo proprio dire se la risposta – e una risposta valida – verrà dalle urne referendarie del 12 e 13 giugno 2011. Temiamo di no. Ma sappiamo che offrire quella risposta, dare garanzie, aprire possibilità, cancellare sospetti e paure è – dovrebbe essere – il compito di chi fa politica, sindacato e impresa e di chi amministra la casa comune. E continuiamo a credere che una classe dirigente degna di questo nome debba tornare a farlo, con priorità assoluta.
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