L'Iran e le milizie "resistono" ma contro i manifestanti
domenica 1 dicembre 2019

Certo, sempre di 'resistenza' si tratta. Ma nei giorni più caldi delle proteste anti-sistema in Iraq e Libano, è ormai chiaro che 'l’asse della resistenza' guidato dall’Iran (con gli Hezbollah libanesi e le milizie sciite irachene delle Forze di Mobilitazione Popolare, Pmf), sta ora mostrando un altro volto, lontano dalla retorica della 'giustizia per gli oppressi'. Ovvero il volto della repressione violenta del dissenso popolare e della conservazione degli equilibri geopolitici, costi quel che costi. Insomma, per la galassia filo-Teheran è ancora tempo di 'resistere' e non soltanto a Stati Uniti e Israele, come nei tradizionali slogan. Stavolta, occorre 'resistere' ai cittadini iracheni e libanesi, sciiti compresi, che chiedono di aprire quei sistemi politici che generano diseguaglianze sociali, disoccupazione e corruzione.

Nulla di molto diverso dalle rivolte arabe del 2011. Con la differenza che, per l’Iran, le proteste di oggi sono un potenziale cortocircuito geopolitico: i suoi principali alleati, quei 'proxies' creati, finanziati e addestrati da Teheran per influenzare il Levante arabo, sono ormai parte dei sistemi che i manifestanti chiedono di cambiare poiché giudicati ineguali e corrotti. «Iran fuori!», gridano i giovani davanti al consolato iraniano, in fiamme, di Najaf, nel sud dell’Iraq a maggioranza sciita, come già al consolato d’Iran a Kerbala. «Tutti significa tutti», è invece lo slogan dei manifestanti libanesi, che vogliono l’uscita di scena di cariche istituzionali e leader politico-comunitari rimarcando che nessuno, neppur Hezbollah, può chiamarsi fuori dai fallimenti della politica di Beirut.

Le proteste popolari che scuotono Iraq e Libano rimettono in discussione il cuore della strategia di politica estera dell’Iran, quell’«arco sciita» che permette alla Repubblica islamica una straordinaria proiezione strategica in Medio Oriente. Dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq e la caduta di Saddam Hussein nel 2003, gli sciiti, la maggioranza numerica, si sono trovati al governo grazie a un modello di quote confessionali (sciiti, sunniti, curdi) che gli statunitensi hanno ricalcato proprio dal Libano (cristiani maroniti, sciiti, sunniti). Oggi, il governo iracheno appena dimessosi dopo le elezioni del 2018 è il frutto di un’alleanza tra fazioni sciite, compresa l’ala politica delle Pmf, quella moltitudine di milizie sciite irachene, in gran parte sostenute dall’Iran, nate per combattere il sedicente Stato islamico nel 2014. In Libano, il dimissionario governo del sunnita Saad Hariri comprendeva anche un ministro di Hezbollah: nel 2016, l’elezione del presidente della Repubblica libanese è stata possibile grazie a un patto tra Hezbollah e Hariri.

Per l’Iran, la gestione politica delle proteste è impervia: la guida suprema Ali Khamenei ha insistito sul «complotto esterno» per destabilizzare non solo l’Iran (teatro anch’esso di consistenti rivolte represse nel sangue), ma anche gli alleati Iraq e Libano. Ma additare un nemico esterno, ovvero «l’usato sicuro» della propaganda di Teheran, si scontra con la realtà delle manifestazioni miste e non settarie di Baghdad e Beirut. Anzi, specie in Libano, chi protesta vuole proprio abbattere il sistema della spartizione confessionale che è stato fin qui dominante, quindi la settarizzazione stessa della politica.

Insomma, le milizie filo-Iran sono diventate le prime guardiane degli equilibri politico-confessionali in Iraq e Libano, i difensori dello status quo contro le pulsioni del cambiamento. Ne sanno qualcosa i siriani che nel 2011 provarono a sollevarsi contro il regime di Bashar al-Assad, alleato di Teheran: allora furono pasdaran iraniani, Hezbollah libanesi, qualche miliziano sciita iracheno (e poi i russi) a spegnere ferocemente la protesta. Ora, le forze di sicurezza irachene, tra cui le Pmf oggi riconosciute come gruppi regolari, contribuiscono a una repressione sempre sanguinosa a Baghdad; e i sostenitori di Hezbollah attaccano a più riprese gli accampamenti dei manifestanti nel centro di Beirut. La 'resistenza' degli alleati di Teheran mostra un altro volto.

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