giovedì 10 febbraio 2011
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Chi di noi, da piccolo, non si è svegliato nella notte piangendo, per richiamare l’attenzione dei genitori? In quel momento nient’altro contava se non le braccia del papà o della mamma che, svegliati di soprassalto, ci prendevano in braccio per consolarci con amore. La paura scompariva solo così. Erano inutili in quel momento tutte le invenzioni che si muovevano intorno a noi, nella culla o nella stanza. Solo l’abbraccio cuore a cuore era capace di farci richiudere gli occhi. Con pazienza. È questa l’immagine che voglio evocare quando vedo la nostra vita quotidiana soggiogata da una virtualità sempre più invadente e proposta come unica soluzione per riempire la solitudine che spesso coincide con la ricerca di senso.In maniera paradossale vorremmo colmare le distanze con l’altro attraverso uno strumento mediatico, qualunque esso sia, non rendendoci conto che così non facciamo altro che aumentare la ferita che più di ogni altra offende qualunque uomo, e che la Bibbia così denuncia: «Non è bene che l’uomo sia solo». Gli strumenti tecnologici sempre più sofisticati che ci consentono di ridurre le distanze nella comunicazione con gli altri – dal computer al telefonino, perfezionato nella versione smartphone – non soddisfano la domanda vera che agita il nostro cuore. E suona falsa, anche per questo, l’idea che ci si possa addirittura confessare attraverso un’applicazione per iPhone, come pure qualcuno ha sostenuto (rintuzzato ieri dal direttore della Sala Stampa vaticana padre Lombardi).La fatica di Dio è sempre stata questa: andare in cerca dell’uomo, prendersi cura di lui, della sua storia. Non per niente lo chiamiamo il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il nostro è un Dio che viene definito dall’altro. È sempre il Dio della relazione. «Non è un Dio solo, ma un solo Dio», diceva don Tonino Bello. È un Dio, quello rivelato da Gesù, che non ama surrogati dell’uomo, siano essi mascherati da sacrifici e incenso, ma va a cercare la pecora smarrita. Finché non la trova. Poi se la mette in spalla, e torna insieme con lei, pieno di gioia.La Chiesa gioca proprio in questo campo della fragilità e della debolezza il suo ruolo di maestra in umanità, andando controcorrente e manifestando in ogni situazione la via alternativa dell’incontro personale. In un mondo dove si vuole che l’inizio della vita venga al di fuori di questo "a tu per tu", e la morte è sempre più isolata e regolata nel rapporto tra una macchina e l’individuo, anche tutti i limiti e le fragilità umane rischiano la presunzione di essere risolti virtualmente. Nel sacramento della riconciliazione la Chiesa si mostra come colei che cerca, attende, abbraccia, bacia, fa festa. Perché quello che le sta a cuore è che proprio nel momento della maggiore lontananza dalla pace e dalla felicità l’uomo ritrovi il perdono anzitutto come relazione.La Chiesa vuole continuare a essere per noi madre, e ci invita instancabilmente a passare dall’io al noi, dall’individualismo all’accoglienza. Come potrebbe fare tutto questo attraverso un computer? Essere guariti è sentirsi amati per quello che siamo: non è frutto di meriti acquisiti, ma il dono gratuito di chi ti ama da sempre. L’amore lo percepiamo nella relazione: come i nostri genitori in quei lontani pianti notturni. Nessuno, neppure i mezzi di comunicazione, può essere delegato a sostituire questa relazione con l’altro.Quante volte ho vissuto la confessione come quell’incontro tra le due mani del capolavoro di Michelangelo nella Cappella Sistina. Una nuova creazione. Mentre ricevo – od offro – il perdono capisco che c’è dell’altro in quel «ti assolvo dai tuoi peccati». C’è tutta la vita nuova di una Chiesa che si prende cura di me, o di chi mi sta di fronte. Che mi spinge a essere anch’io capace di rischiare e assumermi una nuova responsabilità. Nella vita vera. Ogni giorno. Senza nascondermi dietro un iPhone.
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