Cosa significa resistente «vita buona» e perché basta, ma ce ne vuole di più
domenica 22 maggio 2016
Caro direttoreho letto con molta attenzione l’articolo su “Avvenire” del 12 maggio 2016 del professor Francesco D’Agostino «Ora e sempre resilienza» a commento della legge sulle unioni civili che ormai sta per entrare in vigore. La conclusione è che «non possiamo che vivere in modo buono e giusto la famiglia» dovendo accettare ineluttabilmente «le sperimentazioni forse la più estrema, anche se, per nostra fortuna, a basso portato di violenza diretta». Dopo aver meditato, mi sono chiesto: ma, scontata la nostra vita buona, siamo sicuri di non dover fare altro sul piano civile e politico per contrastare almeno la cultura delle dilaganti sperimentazioni a basso portato di violenza diretta? E lo sfruttamento della donna? E l’assenza di fedeltà nei rapporti umani, istituzionalizzata, vero monumento alla cultura dell’individuo innanzitutto? E le inevitabili malattie mentali e i suicidi? La «legge sbagliata» (e per me già ora ingiusta) non aggrava i mali? Non mi pare proprio, visti gli innumerevoli precedenti storici in società con o senza democrazia. E la democrazia partecipata sia nelle rappresentanze che nelle iniziative popolari? È depotenziata senza rimedio, perché dobbiamo comunque accettare il cambiamento culturale progressista con le sperimentazioni estreme a basso portato di violenza diretta. Nell’articolo si afferma poi che «il matrimonio e la famiglia hanno un fondamento non meramente storico–politico ma antropologico e culturale» e da ciò D’Agostino deduce che resisterà a qualunque mutamento culturale: sia pure, ma come? Con o senza minimo impegno sociale e politico? Basta la vita buona? Un cordiale salutoFranco Zasa, ParmaLe sue domande, gentile e caro signor Zasa, sono l’inizio della risposta. Sono piene di senso anche se a mio parere sono mal poste, perché lei le fa risuonare come se la riflessione del professor D’Agostino avesse proposto il contrario del cammino che in realtà indica. Non c’è da «accettare ineludibilmente» alcunché, come lei scrive, equivocando. C’è da misurarsi con la realtà, senza rassegnarsi a essa. Per esempio, e non lo cito a caso, come ha fatto, e fa, “Avvenire” dando da anni battaglia informativa e d’opinione sull’«utero in affitto» mentre tanti altri hanno preferito distogliere (e ancora distolgono) lo sguardo dal più radicale degli «sfruttamenti della donna». E c’è da vivere il Vangelo perché la «vita buona» dei cristiani non è appollaiarsi su una nuvoletta, ma è amore generoso e fedele in famiglia, è costruzione di comunità civile, è cultura coinvolgente, è lavoro onesto, è informazione libera e seria, è politica partecipata e servizievole (dunque non solo “potente”), è saggia legislazione ed è, non certo per ultima, amministrazione specchiata… Lo dico con i verbi di Firenze 2015, l’ultimo grande convegno della Chiesa italiana, che germinano direttamente dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco: ai cristiani – cioè a lei, a me, a noi tutti – è affidato il compito di «uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare». Le pare poco? Le pare solo pur preziosa poesia questa «vita buona» o è anche prosa quotidiana, incontro, azione? Io credo, e cerco di far crescere questa consapevolezza, che «vita buona» è concreto impegno nel tempo, questo tempo di questa Italia e di questo mondo, condotto da gente che sa ascoltare e capire, che sa rispettare e amare la vita che ci è data e la casa comune che ci è affidata.  Altro che scelte remissive! Si tratta – me lo ripeto da una vita e mi fa felice che la mia Chiesa ci chieda oggi proprio questo – di andare in campo aperto non chiudendosi in qualche trincea solitaria e risentita. Certo il nostro, e le cronache parlamentari lo sottolineano spesso, è un tempo anche duro e sfidante. Per questo invochiamo un’intensa e generosa stagione di resistenza e resilienza. Perché, caro amico, la «vita buona» basta e avanza, e ce n’è tanta intorno a noi, ma non ancora abbastanza.Marco Tarquinio
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