venerdì 23 dicembre 2011
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«Manca spesso la forza motivante, capace di indurre il singolo e i grandi gruppi sociali a rinunce e sacrifici», ha detto Benedetto XVI nel discorso alla Curia romana, analizzando la crisi dell’Occidente nelle sue radici. Manca spesso la forza motivante: non è vero forse vero che sembra che ci sia venuto a mancare il motore che spinge il nostro fare, costruire, vivere insieme? Il discorso del Papa è intenso, e realista, nel vedere anche un tedio stanco, nella fede di tanti cristiani. Ma non si ferma qui. A un certo punto domanda: dov’è, la forza che solleva in alto la nostra volontà? Già, dove abita questa forza? Da dove si ricomincia a alimentare il motore dell’energia collettiva, dove si ritrova la forza di costruire, di lasciare un’eredità a chi verrà dopo? (Le nostre antiche città sono come marchiate da chiese e opere d’arte vecchie di mille anni, che ancora ci testimoniano la volontà di vita e di bellezza degli uomini di allora. Noi, tanto più ricchi, e con la nostra straordinaria tecnologia, cosa ci lasceremo dietro?) Dove risiede, dunque, la forza che solleva anche in ben altre povertà? Benedetto XVI risponde citando i ventimila volontari che hanno reso possibile l’incontro di un milione di ragazzi alla Gmg di Madrid. Parla della loro fatica, del tempo dato gratuitamente per mesi, e commenta: hanno offerto «un pezzo di vita, non perché questo era stato comandato e non perché con questo ci si guadagna il cielo; neppure perché così si sfugge al pericolo dell’inferno. Non l’avevano fatto perché volevano essere perfetti. Non guardavano indietro, a se stessi (...) Hanno fatto del bene semplicemente perché fare il bene è bello, esserci per gli altri è bello. Occorre soltanto osare il salto». Quale salto? si potrebbe domandare. Il salto in Cristo, l’abbandono a un padre in cui riconoscersi felicemente figli. Ciò che il Papa ha visto nella gioiosa, totale fede dei cristiani in Africa, e che noi ricchi, noi sapienti abbiamo smarrito. Un salto che si lasci indietro come tempo perduto l’ossessione della 'realizzazione di sé', del proprio tornaconto, dell’Io che assorbe e divora energie, in un narcisismo che nemmeno riconosciamo, tanto è collettivo. Quei ragazzi di Madrid, dice il Papa, non guardavano indietro, a se stessi; lavoravano semplicemente «perché esserci per gli altri è bello». Per il gusto di una bellezza, la bellezza che affascina (la bellezza che, dice Dostoevskji, salverà il mondo). Due sguardi, due attitudini opposte dunque indicate da Benedetto XVI in questo finire di anno impoverito, spaventato, inquieto. Quello della moglie di Lot che si volta indietro, attenta e intenta a se stessa soltanto, e diventa una statua di sale – di tutte le materie la più riarsa, la più inaridita. Lo sguardo, invece, dei ragazzi di Madrid: dare tempo, darsi senza misura, dimentichi di sé: scoprendo in questo con stupore, come hanno testimoniato al ritorno molti dei nostri figli, una profonda, dimenticata bellezza. Muoversi non per dovere o per 'essere buoni', ma andando incontro come a una naturale inclinazione al non vivere per sé soli. «Noi siamo un colloquio», dice un verso di Holderlin: noi non siamo fatti per restare chiusi in noi stessi, come in una prigione. Non è forse la stessa gioia scoperta dai ragazzi che sono andati a spalare il fango nella Liguria alluvionata? La strana contentezza sulle loro facce di fatica ci commuoveva come un’eco di qualcosa che già abbiamo inteso, e poi dimenticato. Sogni adolescenziali? Illusioni? O invece l’impronta di una originaria natura, stampata addosso? Basta fare il salto, dice il Papa in questa fine d’anno di cuori stretti di paura. Basta riconoscere che abbiamo dentro, spesso censurata, un’ansia di infinito, e aprire gli occhi, in questa vigilia, al nascere di quel bambino che da duemila anni abita ostinatamente la storia. Negato, frainteso, rinnegato. Ma trovatelo voi, un altro che da un simile tempo affascini e muova gli uomini, e li seduca dentro una così poderosa, misteriosa bellezza.
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