martedì 19 novembre 2019
La polizia la circonda da giovedì: il parroco in trappola con le mamme in sciopero della fame per chiedere il rilascio degli figli. «Il mondo ci aiuti» Il cardinal Brenes: il Papa è informato
Le mamme dei prigionieri politici in preghiera nella chiesa di San Miguel Arcangel di Masaya, vicino a Managua

Le mamme dei prigionieri politici in preghiera nella chiesa di San Miguel Arcangel di Masaya, vicino a Managua

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«Al mondo chiediamo di non lasciarci soli. Per favore, non dimenticatevi che siamo qui. Padre Edwin è malato. Non abbiamo acqua. Ci minacciano di continuo. Rischiamo di morire, se non ci ammazzano prima». Le parole, strazianti, arrivano ad Avvenire dalla chiesa di San Miguel Arcangel di Masaya.

A pronunciarle, con un filo di voce e l’ultimo rimasuglio di carica del cellulare, è Yonarquis Mártinez. Da sei giorni, l’avvocatessa per i diritti umani, il parroco – Edwin Román –, nove madri di giovani incarcerati negli ultimi mesi dal governo di Daniel Ortega e due ragazzi rilasciati di recente, Santiago Fajardo e Marlon Powell, sono prigionieri nell’edificio sacro. Con i rubinetti a secco e senza elettricità, dopo il taglio dei servizi da parte delle autorità. Dato il cordone di polizia, dalla chiesa è impossibile uscire. E nemmeno entrare. Chiunque abbia cercato di avvicinarsi a San Miguel per portare acqua e soprattutto insulina per padre Edwin, diabetico, è stato bloccato o peggio. Tredici esponenti dell’oppo- sizione – riuniti nell’Unidad nacional azul y blanco (Unab) – sono stati addirittura arrestati sulle scale della chiesa, rinchiusi nel penitenziario di El Chipote e accusati di terrorismo.

È salito così a 158 il numero di fermati per ragioni politiche: negli ultimi cinque mesi, dopo la liberazione di 700 attivisti prima dell’estate, le celle si sono riempite di nuovo. Proprio per chiedere la liberazione dei figli, nove mamme di Masaya avevano annunciato, giovedì, uno sciopero della fame. Padre Edwin, da sempre in prima linea per la difesa dei diritti umani, aveva offerto loro di restare in chiesa, per evitare rappresaglie. Nessuno immaginava che quel gesto avrebbe riportato la cittadina alle porte di Managua al centro della ribalta globale.

Dalla Spagna al Costa Rica sono intervenuti sul caso San Miguel. Il governo, preoccupato dall’evoluzione della crisi boliviana, ha evitato qualunque risposta. Subito dopo l’annuncio dello sciopero della fame, la polizia ha circondato la parrocchia. Intrappolando dentro anche il sacerdote, l’avvocatessa Martínez e i due ex detenuti politici che si trovavano là per esprimere solidarietà alle madri. Da quel momento, il blocco è stato totale. Tanto che domenica, il sacerdote ha dovuto celebrare la Messa a “porte chiuse”. L’assedio di San Miguel è stato condannato con forza dal cardinale Leopoldo Brenes, arcivescovo di Managua, il quale ha espresso «vicinanza, preghiera e sostegno» a padre Edwin e ai fedeli. Il cardinal Brenes ha dichiarato, inoltre, che papa Francesco è stato informato dei fatti di Masaya e «posso dire che, in forma privata ha chiesto di far arrivare un suo messaggio alle autorità per mediare in questa situazione».

Una sollecitudine non nuova quella di Bergoglio, il quale ha seguito da vicino la crisi nicaraguense e ha rivolto numerosi appelli per la pace e il dialogo. Stavolta, il Santo Padre – secondo quanto detto dall’arcivescovo di Managua – avrebbe sollecitato un gesto di buona volontà dalle autorità, con il rilascio degli attivisti arrestati entro Natale. Sull’esempio di Masaya, intanto, alte madri sono scese in campo: ieri un gruppo ha iniziato uno sciopero della fame nella cattedrale di Managua.

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