Il conflitto israelo-palestinese e la «non soluzione» dello stallo
L'obiettivo dei «due Stati per due popoli» è sempre più lontano. E la realtà si è consolidata dentro uno status quo che nessuno vuole ma in cui tutti restano

Il 15 maggio 1948, il giorno dopo la proclamazione dello Stato di Israele, allo scadere del Mandato britannico, gli eserciti di Egitto, Siria, Trangiordania, Iraq e Libano, contrari alla spartizione della Palestina prevista dal Piano Onu del 1947, accolto invece dagli israeliani, attaccarono, insieme, il nuovo Stato ebraico. Da allora sono passati 27.049 giorni, quattro guerre arabo-israeliane, due con il Libano, due Intifada, numerose operazioni nella Striscia di Gaza e migliaia di morti (che stime approssimative attestano a circa 24.000 israeliani e 91.000 arabi).
Negli anni, Israele è riuscita a disarmare i confini costruendo rapporti di pace, memorandum di intesa e partnership commerciali con i vicini regionali (ultimi – ma non ultimi – gli Accordi di Abramo, rinsaldati questa settimana dalla firma di un patto di libero scambio con gli Emirati Arabi Uniti). Sul fronte interno è andata decisamente peggio, e il conflitto con i palestinesi resta un nodo irrisolto. La soluzione che prevede “due Stati per due popoli” è l’orizzonte cui le diplomazie occidentali continuano a guardare con speranza. Con gli anni, però, una malta di fallimenti e prese d’atto ha consolidato uno status quo che a nessuno piace ma che tutti, in fondo, cercano.
Da qualche tempo circolano con insistenza teorie-placebo sulla normalizzazione dello scontro: hanno il sapore (amaro) della consolazione ma convincono. La più strutturata è quella di Micah Goodman, ascoltato (anche dall’attuale governo Bennett) intellettuale israeliano, che ha messo a punto la dottrina della “contrazione del conflitto”.
L’idea di base è tanto semplice quando funzionale: se in più di 70 anni non si è riusciti a risolvere il problema dell’occupazione, l’unica cosa che resta da fare è «restringerla», «minimizzarla». Esattamente quello che sta succedendo. Israele ha un governo senza maggioranza, conquistato per miracolo, che non può assumere decisioni dirimenti. I palestinesi non hanno, in pratica, rappresentanza (non è un caso che da 16 anni non vengano chiamati a votare).
L’Anp è forse al punto più basso di tutta la sua storia: la dirigenza, affidata a un presidente anziano e debole – Abu Mazen – è costantemente sfidata dall’aggressività ideologica, e purtroppo non solo, del gruppo Hamas. E il gruppo Hamas, sempre più scollato dalla sua gente, dentro e fuori Gaza, cerca di guadagnare consensi nell’unico modo che conosce: la violenza.
Il prodotto di questo stallo è sotto gli occhi di tutti. I due governi, quello israeliano e quello palestinese, dialogano, smettono di dialogare – giorni fa l’Anp ha di nuovo minacciato di interrompere i rapporti, rivedendo il riconoscimento dello Stato ebraico –, ricominciano. Soprattutto, fanno i conti con le spinte estremiste che ciclicamente deflagrano.
L’anno scorso, le tensioni nelle città miste sono state prontamente alimentate e indirizzate da Hamas, e lo scontro è arrivato fino alle due settimane terribili di Gaza. Quest’anno, il mese di Ramadan è stato accompagnato da un’ondata di attentati – con epicentro in Cisgiordania – costati la vita a 19 persone in Israele. In mezzo ci sono stati 12 mesi in cui a israeliani e palestinesi è toccato continuare a convivere, senza che al mondo interessasse un granché. Il “conflitto contratto”, probabilmente. La soluzione, ingiusta ma possibile, della non-soluzione.
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