Lavora e muto. Come una bestia. Per ore, anche se la pioggia è battente, fa freddo e i campi sono ancora ricoperti dal gelo. Raccogli arance e clementine per 12, 14 ore. E non t’azzardare a chiedere i soldi. Nemmeno quei pochi che t’hanno promesso, ma che alla fine ti negano. Perché tu sei solo bestia da soma. Sei straniero. Sei clandestino. E stai attento «che qui comandiamo noi, se dai fastidio sei morto».Da Rosarno alla Piana di Sibari ci sono 200 chilometri. Dalla rivolta dei «neri», sfruttati per la raccolta degli agrumi, è passato più di un anno. Ma poco sembra essere cambiato in questa terra se ancora ieri, a Corigliano Calabro, è stato arrestato un imprenditore agricolo per aver ridotto in schiavitù ben 17 persone. Emigranti indiani e pachistani che dopo due mesi di vessazioni continue hanno trovato il coraggio di denunciare. Hanno sfidato il potere dei clan criminali e si sono rivolti alla Guardia di Finanza. Sono scattate le indagini, l’imprenditore (?) è stato messo sotto controllo, si sono trovati riscontri alle violenze fisiche e psicologiche subite dai lavoratori extracomunitari. E si è arrivati all’arresto per i reati di truffa, appropriazione indebita, caporalato e appunto l’infamante «riduzione in schiavitù».In questi mesi l’impegno delle amministrazioni pubbliche per contrastare il fenomeno del lavoro nero è stato rafforzato. Da marzo a dicembre 2010 tra Sicilia, Campania e Calabria sono state controllate quasi 8mila aziende agricole e trovati circa 3.500 lavoratori completamente in nero. Nella sola regione Calabria i controlli hanno riguardato 2.025 imprese, 575 sono risultate non in regola e sono stati scovati 890 lavoratori senza tutele, oltre ad altri 797 impiegati in maniera variamente irregolare. In realtà, però, le dimensioni del fenomeno del caporalato e dello sfruttamento sono assai più vaste di quelle individuate. Perché in molti casi gli ispettori del lavoro non si azzardano neppure a metter piede in masserie e campi coltivati, se non possono contare sulla scorta delle forze dell’ordine, soggetti come sono a intimidazioni e vere e proprie violenze.E ancora ci sono le complicità. E peggio le accondiscendenze. Perché intorno all’agricoltura – in Calabria come in Puglia e in altre zone del Paese – c’è un intero sistema che lucra più sulle truffe che sulla vendita dei prodotti. Che guadagna con l’Inps e l’Unione Europea invece che nei mercati ortofrutticoli. Sfrutta i «neri» per la raccolta e assicura in maniera fittizia i giovani italiani per il numero di giornate sufficienti a far scattare, poi, l’indennità di disoccupazione. S’inventa finte cooperative per nascondere il caporalato e paga i contributi per qualche mese alle donne. Appena il tempo giusto prima che rimangano incinte, e abbiano così diritto al sussidio per la maternità. Un sistema perverso che alimenta l’illegalità, la violenza, offende la dignità delle persone. E soffoca progressivamente il futuro di intere porzioni d’Italia. Ma che non avviene nel nascondimento di uno scantinato: si svolge all’alba nelle piazze delle città, all’aperto nei campi, è sotto i nostri occhi. Le imprese melle nostre campagne non sono proprietà di lontane multinazionali: padroni e padroncini sono noti in ogni comunità.La denuncia degli immigrati indiani e pachistani – il loro fidarsi nonostante tutto di uno Stato che non sempre sa trattarli da cittadini – prima ancora che un’azione di rivalsa, è una lezione di dignità e di senso civico. I veri schiavi, alla fine, siamo noi quando non vediamo, non sentiamo, non parliamo.
Più dei vari movimenti locali che si contendono il potere, a decidere del futuro politico di Damasco saranno le potenze che in passato hanno usato il Paese quale arena per combattersi a distanza