Opinioni

Pensieri sui figli e sulla speranza. Quanti ragazzi portati via

Marina Corradi domenica 20 novembre 2022

Quanti ragazzi, negli ultimi giorni, portati via dalla morte in circostanze assurde. Il liceale milanese di 14 anni finito sotto un tram nei cinquecento metri che lo separavano da casa a scuola. (Fra amici a cena, e nei bar della pausa pranzo fra colleghi ci si interroga: come mai, perché improvvisamente quel ragazzo ha svoltato? Com’ è possibile che non abbia visto il tram, accanto a lui, che arrivava?).

E quell’altro, 18 anni, a Roma, falciato su un marciapiede una sera, mentre semplicemente camminava? Si sta in ansia se i figli sono in auto fuori città la sera, ma, quel ragazzo era su un marciapiedi. Nessun luogo allora è salvo dagli agguati di un destino crudele? E la diciottenne veneta travolta da un'auto mentre rincasava di notte a piedi su una Provinciale? Dopo una lite con il suo ragazzo era rimasta sola. Aveva chiamato il padre perché la venisse a prendere. Ma il padre quella notte, stanco, aveva spento il cellulare.
Muoiono giovanissimi, ci raccontano le cronache, presi da un caso che pare incredibile. E quanto chi ha figli e nipoti resta ferito da queste notizie. Come ci fosse, nascosto nelle nostre città, un cecchino sui tetti, in agguato. A un tratto sceglie a chi mirare. Perché Luca, perché Francesco? Non si vede alcuna ragione.
Impossibile, capire. (Certo, per quanto cerchiamo di non pensare a certe ipotesi, lo sappiamo in fondo che nemmeno la sera di questo giorno appartiene ai nostri figli, o a noi stessi. Ma, quanto ai figli, quel timore è lacerante, perché ci sono, loro, molto, molto più cari di noi).
È sempre accaduto nella storia del mondo, anzi fino all’avvento degli antibiotici per portare via un bambino bastava il morbillo. In certi cimiteri di montagna c’è ancora, l’angolo dei bambini, e dalle date sulle lapidi comprendi quanto piccoli erano, e come sono morti tutti in un inverno, rapiti insieme. Come facevano quei padri, quelle madri, ti domandi. Forse con sei o otto figli il vuoto lasciato da chi moriva era ugualmente incolmabile, ma gli altri ti si affollavano attorno ad abbracciarti, e a darti la forza di continuare.

Ciò che invece oggi ci rende insostenibilmente vulnerabili è che di figli ne abbiamo due, o anche uno solo. E in quest’ultimo caso puoi capire il padre che dice: “Morto lui, non ho più un motivo per andare avanti”. Lo capisci con profonda compassione, e forse è la stessa cosa che diresti tu, nella medesima circostanza, anche tu: tu con la tua fede, tu con i tuoi forti ideali.
Le generazioni di un tempo crescevano e educavano tanti bambini e poi, ancora giovanissimi, lasciavano che camminassero da soli. Noi ai nostri pochi o unici figli ci leghiamo a volte come se la dipendenza e la tenerezza dell’infanzia potessero durare per sempre. Come se i figli fossero “nostri”, come se ci appartenessero per sempre.

L’adolescenza con le sue metamorfosi, i suoi mutismi, le sue ribellioni sembra fatta apposta dalla natura per risvegliarci da questa illusione. Ma magari ci diciamo: è l’età, è solo un momento… Le morti di ragazzi su cui le cronache insistono, umanamente assurde, ci ripetono invece bruscamente: i vostri figli non vi appartengono, non sono “vostri”, non lo sono mai stati. Vi sono solo stati affidati. Ma che fatica è ricordarselo, anche fra cristiani, fra uomini e donne che dovrebbero sapere come ognuno appartenga davvero solo a Cristo. (E agli altri, invece, a chi non ha alcuna fede e non nutre altre speranze, in queste sciagure cosa resta? Tremi nel pensarci).

Che schiaffi tirano certe mattine le notizie alla radio, o sul web. “Ma hai sentito? – ci diciamo – aveva l’età di Anna, di Andrea, di Marco…” – l’età dei nostri ragazzi. E ci sentiamo stringere il petto in una morsa. Il cecchino, il misterioso cecchino non è forse ancora là fuori?
L’angoscia pagana di un destino cieco allora ci affronta. Se imparassimo a ringraziare ogni mattina per averli avuti, a ringraziare ogni mattina per il dono che sono – e che ritroveremo, nella vita che ci è promessa. Solo coltivando la gratitudine per il dono che è un figlio, si può cercare di amarlo con gratuità. Di amarli senza quella simmetrica silenziosa paura, di amarli senza possesso. (L’abisso del possesso emerge in quei poveri resti trovati ieri sepolti sotto a un capannone a Novellara, Reggio Emilia. Ciò che rimane di Saman, 18 anni, bellissima, uccisa da suo padre con la complicità della madre e degli zii, solo perché non voleva cedere a una pretesa antica, tirannica. Dal padre e anche dalla madre, capite: da quella madre che l’aveva cullata e allattata. Si fatica a crederlo. Ma fino a qui può atrocemente arrivare la pretesa su una figlia , se la si ritiene cosa nostra). Altri da noi, invece. Semplicemente, ci sono stati affidati. Ciò che li chiama è il loro destino – misterioso magari fino alla vertigine, eppure buono. Questi figli così nostri, così vertiginosamente non nostri.