giovedì 7 aprile 2011
È passata su di noi una serie di tempeste, ma noi siamo come allora, fanciulli senza legami col mondo, con gli occhi in cerca di alberi fioriti e di allegrie gratuite. Sono passate le rabbie ed è restata la gioia, anche se velata dalla malinconia per le assenze, che si sono fatte così numerose, e per gli smarrimenti di alcuni amici diventati seri e paurosi, e magari ingrigiti dalla carriera che hanno dovuto pagare con troppa saggezza.

Era l'agosto 1991, in un ristorante di Lecco. La scena è ancora viva davanti ai miei occhi: padre Ernesto Balducci dominava la tavola, sempre brillante e debordante; padre Nazareno Fabbretti gli faceva da spalla, mentre lo scrittore Santucci era l'anfitrione e un padre Turoldo, tormentato dal cancro, era travolto dall'entusiasmo comune. Pochi mesi dopo, padre David si sarebbe spento, padre Fabbretti si sarebbe avviato a un crepuscolo triste e padre Balducci sarebbe deceduto in un incidente stradale.
Era lui a scrivere queste righe nel 1987 a padre Nazareno. Le propongo ai miei lettori desumendole dal volumetto Lettere di un'amicizia, edito dalla Fondazione Balducci di Fiesole, perché vorrei anch'io avere - ormai giunto alla terza età - questo stesso spirito e augurarlo a tutti. Essere anche nella vecchiaia come palme e cedri verdi e rigogliosi capaci di dare frutto (Salmo 92, 13-15), avere occhi di fanciullo che non si stancano mai di cercare, di scoprire, di stupirsi, di sorridere. Il dono della pacatezza nel giudizio e della serenità nel vivere non è la cupa serietà o il grigiore di chi deve difendere una posizione di carriera, non è quell'eccesso di buon senso che è paura e che impedisce il respiro libero, la ricerca lungo strade inesplorate, i viaggi nei grandi orizzonti della vita.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: