sabato 19 aprile 2003
La lezione più importante che l'uomo possa imparare in vita sua non è che nel mondo esiste il dolore, ma che dipende da noi trarne profitto, che ci è consentito trasformarlo in gioia. Siamo ancora coinvolti dalla liturgia di questa giornata nel mistero del dolore. Il corpo di Cristo, privo di vita, è in una tomba gelida; attorno a lui c'è solo il silenzio e l'affetto di poche persone. Ci affidiamo per la nostra meditazione non a un padre della Chiesa o a un autore cristiano ma a un indiano, il poeta Tagore (1861-1941) che sentì il fascino della figura di Cristo, pur rimanendo legato alla sua religione e alla sua cultura. Dalla sua opera Sadhana, che raccoglie una serie di riflessioni sul senso e la realizzazione della vita, abbiamo oggi estratto una considerazione semplice sull'esperienza della sofferenza. Un grande teologo come il card. Henri de Lubac affermava che «il dolore è il filo con cui è tessuta la stoffa della gioia». Certo, con l'angoscia si può precipitare in un baratro in cui ci si sfracella, perdendo ogni vita e speranza. Ma è possibile anche rendere l'angustia una via di purificazione, di trasfigurazione e persino di glorificazione. È ciò che proclama il mistero pasquale: il Cristo delle grandi absidi bizantine è al tempo stesso segnato dalle ferite della passione ma è anche trionfale e glorioso nella luce della risurrezione. C'è, infatti, un morire per vivere, come insegna l'immagine del chicco di grano che marcisce nel terreno ma che è destinato a rinascere in stelo e spiga. Anche i dolori laceranti di un parto sono principio di gioia
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