giovedì 4 maggio 2006
Càpita di essere felici senza saperlo, di dare generosamente senza pensare di essere generosi e càpita di scoprire che la gratitudine è un sentimento raro poco sentito e poco praticato. Càpita di veder rovesciata l"esistenza in un attimo e càpita che per essere ancora un po" simile a quel che eri prima, ci vogliano mesi e mesi di pazienza e di attesa.Il 17 luglio dello scorso anno moriva a Milano la scrittrice Gina Lagorio. Il suo ideale testamento è in un libro postumo dal titolo a prima vista enigmatico, Càpita (Garzanti). Il verbo scandisce la maggior parte dei capitoletti dell"opera che è un"estrema riflessione sulla vita e sulla morte, sul significato ultimo dei sentimenti e dei pensieri, riflessione condotta dall"angolo di visuale del tramonto, quando appunto la malattia s"era insediata attraverso un ictus non solo nel corpo della scrittrice ma anche nella sua anima e nella sua storia personale.Ho citato sopra solo alcune battute di questo libro intenso e forte che aiuta a comprendere come tutto quello che «càpita» nella vita alla fine abbia un misterioso valore. Ero amico di Gina Lagorio e so quanto rigorosa fosse la sua ricerca interiore, la sua spiritualità "laica", la sua dolce umanità. Eppure in queste pagine mi sorprendo a scoprire in modo sottile e segreto che lei ha trovato una risposta a tutto ciò che ci «càpita», al punto tale da permettere quasi di trasformare quel verbo nell"assonante «capìta»: sì, la vita col suo accadere («capitare») per Gina e per tutti coloro che cercano con cuore sincero e purificato può essere capita, compresa, decifrata e amata, anche quando «càpita di voler parlare e invece si biascica» sotto il peso della malattia e della prova.
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