Ma non ci sono bombe normali
venerdì 18 ottobre 2019

Quando si parla di attacchi chimici, o con ordigni vietati dalle norme internazionali che cercano di regolare i conflitti, bisogna sempre essere cauti. Perché internet e social media permettono il diffondersi di notizie non verificate, immagini manipolate o prese da altri scenari di guerra. E quindi dobbiamo concedere il beneficio del dubbio alla Turchia, accusata dalle forze curde di aver usato tali terribili armi contro la popolazione civile di Ras al-Ain. Proprio in Siria, negli scorsi anni, vi sono state ripetute accuse contro il regime di Damasco, indicato come l’autore di svariati bombardamenti chimici. Senza che vi siano poi state conclusioni inequivocabili o conseguenze per il presidente Assad.

Ma il ribadire la prudenza nel valutare non significa non provare una pietà e una pena indicibili per le immagini circolate di quei visi di bambini sofferenti, né cercare un comodo e ambiguo rifugio nel non voler vedere cosa avviene oggi in Siria. L’operazione "Sorgente di Pace" non rappresenta, come proclamato ai quattro venti da Erdogan, il tentativo di combattere dei terroristi curdi e di mettere in sicurezza i confini turchi. Il piano, come noto, è molto più cinico. Il presidente turco, nel 2011, si era avventurato nella partita siriana perseguendo obiettivi ambiziosissimi, tutti falliti: sul campo le milizie islamiste da lui sostenute – un impasto spesso terribile di salafiti e di jihadisti dogmatici e violenti – sono state sconfitte. L’intervento di questi giorni lo fa uscire dalla marginalizzazione geopolitica, creando una buffer zone (una zona cuscinetto) in cui ricollocare le proprie milizie e, probabilmente, anche parte dei profughi siriani sunniti oggi in Turchia. Per farlo deve spingere la popolazione civile curda alla fuga, non solo sconfiggere le deboli milizie curde di Rojava. Ma la pulizia etnica su vasta scala ha bisogno del terrore: ecco allora le attiviste femminili violentate e trucidate, le case della popolazione inerme bombardate, l’artiglieria che martella i territori, mentre Damasco finge di correre in loro soccorso, quando in realtà rioccupa – con un tacito accordo facilitato dai russi – zone arabo-siriane occupate da forze curde che combattevano Daesh. Un ritiro, quello dei miliziani curdi, che forse ha favorito la decisione di accettare da parte di Ankara la richiesta di tregua avanzata da Washington.

Dalla fine della guerra fredda fino a pochi anni fa, la sola idea che un Paese Nato facesse ricorso ad armi proibite sarebbe apparsa ridicola. Oggi ci domandiamo se sia vera. E già l’avere questo dubbio rivela i disastrosi mutamenti che Erdogan ha imposto allo Stato turco, a lungo uno dei pilastri della Nato, oggi con un problema di fiducia reciproca pressoché irrisolvibile, che mina l’Alleanza. Una distanza crescente in cui si è incuneata con la sua solita grande capacità tattica la Russia di Putin: essa ha tutto da guadagnare da una Turchia che mostra al mondo i propri lati peggiori e che si isola sempre più dall’Occidente. Tanto più se quest’ultimo, su entrambe le sponde dell’Atlantico, è vittima di un autolesionismo che entrerà nei libri di storia. È quasi inutile, ormai, soffermarsi sulle giravolte e sulla mancanza di visione strategica dell’ineffabile presidente Trump: i suoi tweet, ora bizzarri ora vergognosi, non coprono lo spaventoso vuoto di capacità previsionale e decisionale che regna nell’Amministrazione statunitense, a cui il viaggio del vicepresidente Pence ad Ankara per forzare una fragile tregua provvisoria cerca tardivamente di rimediare. E forse è altrettanto inconcludente sperare ancora che dall’Europa giungano voci chiare e concordi invece che non il balbettio imbelle e imbarazzante di chi sembra aver rinunciato ad avere una politica estera e di sicurezza unitaria e decorosa.

L’Occidente ha sempre proclamato di considerare l’uso di armi chimiche una linea rossa insuperabile. Ebbene, se anche domani vi fosse l’evidenza conclamata di tale uso dalla Turchia, che cosa faremmo noi? Nulla o quasi. Come poco stiamo facendo dinanzi alla brutalità di un attacco contro una popolazione che abbiamo sostenuto, sbandierando amicizia e protezione, soprattutto perché combatteva i terroristi jihadisti e li teneva nelle sue prigioni. Anche fossero solo bombe "normali", quelle turche distruggono non solo le speranze dei curdi siriani, ma quel che resta della nostra credibilità nel promuovere una visione meno brutale e crudamente darwinista del sistema internazionale.

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