domenica 24 dicembre 2023
Il problema attuale del predominio di un piccolo gruppo di "eletti" sul "popolo" riguarda anche la comunità cristiana. Che ha quello che serve per una conversione liberante, a beneficio di tutti
Gente davanti al Duomo di Milano

Gente davanti al Duomo di Milano - Fotogramma

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Una società come la nostra, sempre più dipendente dalle specializzazioni e dalle competenze professionali di tipo "intellettuale", scopre nello stesso tempo il formarsi di una concentrazione di potere super-occulto e di una selezione di privilegi super-pagati che sembra non più disposta a sopportare. Il predominio - e il dominio - dell’intellettualtà tecnologica, che si decide "da sé", è in vertiginosa ascesa.

Una società che si vuole ispirata dall’ideale convivenza di "liberi e uguali" diventa insofferente nei confronti di una concentrazione del dominio e della diseguaglianza che si giustifica in riferimento alla superiorità "antropologica" della specializzazione cognitiva e professionale. Il disagio diventa aperta irritazione e contestazione là dove la mediazione intellettuale interviene con pretesa normativa nel campo delle convinzioni politiche, morali, religiose. Il nuovo "popolo" dei liberi e uguali rivendica il diritto di considerare, nella sfera pubblica, la dignità anche intellettuale di tutte le "opinioni" che riguardano le scelte di vita. Però, la tumultuosa insofferenza di questo popolo continua a dipendere da una implacabile morsa di burocratizzazione, tecnicizzazione, monetizzazione dei bisogni: e anche dei desideri. Tutti imparano a essere un tutto e a volere le stesse cose: nessuno lo sarà e nessuno le avrà. Il livellamento, così, si fa al minimo: senza amore per le differenze che arricchiscono e senza reale contenimento delle disparità che danneggiano.

La comunità cristiana è forse estranea a questa problematica? Direi di no. E sono pure convinto che una più coraggiosa comprensione delle sue risonanze interne può forse offrire ispirazione per la missione evangelica che le compete.
Intanto indicherei brevemente tre punti di intreccio ecclesiale della protesta che denuncia un cattivo rapporto fra "élites" e "popolo". Il primo è radicale e di principio. Possiamo semplicemente presentarci come "gli eletti", in cui la redenzione e la salvezza del mondo è andata a buon fine, in contrapposizione al resto del mondo che ne rimane escluso, precisamente perché non è come noi? La nostra missione è radicalmente quella di aprire il regno di Dio o semplicemente fare devoti della Chiesa? Un secondo livello di intreccio è più interno, ma di cruciale rilevanza anche per la testimonianza. Esistono due generi di cristiani - quelli che comandano e quelli che obbediscono - oppure un solo genere di cristiano, all’interno del quale ci sono diverse vocazioni e specifiche funzioni, assegnate dal Signore e suscitate dallo Spirito per l’utilità "del comune"? Il terzo livello di intreccio appare oggi il meno rilevante per l’opinione comune: ma a ben vedere, si nasconde lì una chance indispensabile al pacifico scioglimento degli altri due nodi. Si tratta, infatti, della competenza della teo-logia. Oggi patiamo l’eccesso di una teologia per la scuola-quadri (necessaria, certo) e manchiamo vistosamente di intelligenza degli incanti del mistero dentro le avventure del pensiero.

Gli ostacoli a una serena ricomposizione della coscienza cristiana con la sua trasparenza evangelica sono, del resto, apertamente nominati e inquadrati: ormai parliamo apertamente delle cattive piegature del proselitismo, del clericalismo, dell’intellettualismo. Non manchiamo di evidenze: manchiamo di visione (siamo troppo poveri di passioni intelligenti, e troppo ispirati da passioni tristi).
Però, nelle seconde file (dietro i monsignori delle dispute clericali e gli auto-nominati difensori del popolo) ci sono molti che non sono né sofferenti né insofferenti dell’elezione cristiana alla testimonianza del regno di Dio per tutti. Molti che considerano il ministero sacerdotale e la consacrazione religiosa una evangelica riserva dell’autorevole ospitalità di Dio per coloro ai quali la vita non è ospitale. Molti che sono commossi di una fede che non disprezza l’intelligenza e ritengono un onore il dono di poter coltivare l’alleanza dell’ispirazione credente e del pensiero umano. Non c’è motivo di vergognarsi dell’elezione testimoniale, del ministero autorevole, della teologia pensante. Ma ci sono ottime ragioni per liberarle dalla perversa immagine di una élite che coltiva sé stessa e ne argomenta dispoticamente il privilegio: della cui presunzione, invece, dovrebbe essere confusa e chiedere perdono.

E qui viene in causa la mia traduzione - teologicamente rozza, ma cristianamente eloquente - del concetto di sinodalità. La complicità di tutti, per la lieta impresa di tutti: ecco quello che ci manca. La complicità della passione per far fare bella figura alla comunità che semina vangelo per i molti, invece che coltivare una serra per l’autocompiacimento dei devoti.

Ne verrebbe qualcosa anche per la disputa sul popolo e le élites, che sta diventando un nuovo motivo di risentimento e di sfarinamento sociale (e non ne sentivamo davvero il bisogno)? Direi di sì, se facciamo mente locale al fatto che il nuovo popolo dei liberi e uguali, spinto a diffidare di tutti i "professori" e di tutti gli "educatori", viene dirottato - per ragioni meramente economiche - verso la regìa degli "influencer" e degli "algoritmi". L’ostinata piegatura commerciale verso l’autoreferenzialità del singolo che si fa da sé sta già generando una mutazione antropologica della psiche adolescente. E corrode largamente la passione per il comune, che allieta la convivenza dei diversi. Di nuovo, il tema è la complicità fraterna, che il gergo ecclesiastico chiama sinodalità ecclesiale: solo insieme abbiamo quello che ci serve per condividere la fede nel possibile e rimanere umani anche nell’impossibile. Non c’è niente di più entusiasmante della riuscita di qualcosa di cui l’intera comunità può andare orgogliosa.

Il cristianesimo ha un’eredità preziosa, su questa lunghezza d’onda: attualmente quasi inservibile (vi resistono i vecchietti, ormai), però capace di nuova ispirazione (se si riconverte ai giovani). La regìa di questa conversione ha bisogno di menti immaginative e di mani esperte. Di élites disinteressate e autorevoli, al riguardo, non patiamo certo l’eccesso, ma la penuria. Presi dal nervosismo e dalla paura, le scoraggiamo, persino.

La ricaduta di questa "complicità sinodale" sulla depressione della comunità credente ha potere di irradiazione sull’incerta passione umanistica della comunità civile? Il cattolicesimo ha lungamente coltivato una speciale dimestichezza con i princìpi ispiratori dell’umanesimo solidale che ha plasmato l’Europa. È stato, largamente, élite servizievole e popolo generoso. Ora non è più né élite né popolo - se non in un senso molto generale e indistinto -, umanisticamente parlando. Deve forse rinchiudersi nel proprio mondo di ex-combattenti e reduci, aspettando la cavalleria? La prima mossa dovrebbe essere proprio questa. Si tratta di abitarle, le élites, non di fuggirle: fiduciosi che quella buona scaccia quella cattiva. Senza portatori di impulsi intellettuali e di esperienze di condivisione all’altezza della visione che serve all’umanesimo prossimo venturo, servire il popolo diventerà un compito da badante (con tutto il rispetto per la preziosa e insostituibile dedizione che offre). E l’intellettuale credente renderà esemplarmente disponibili proprio le sue competenze più alte ai poveri, agli esclusi, ai vuoti a perdere della società affluente. Con quei guizzi di ironia di cui era maestro Gesù, quando raccontava del fattore che sconta spregiudicatamente debiti pur legittimi, e offre crediti impensati anche all’operaio dell’ultima ora (i figli del precario mangiano come quelli del posto fisso).

Una comunità di gente che si sa portatrice - non fondamento! - di una eterna destinazione del voler-bene, in cui Dio ha messo tutto il suo onore, può muoversi con agilità verso la formazione creativa di corpi intermedi - più musicali che militanti - i quali restituiscano alla città secolare la punteggiatura e la temperatura spirituale di cui è poverissima. Evidenze palpabili e godibili di un umanesimo della sussidiarietà fraterna che falsifica gli algidi calcoli sacrificali delle élites abusivamente insediate.
Con la guida profonda e sensibile di don Pierangelo Sequeri, stiamo andando in cerca dei segnali che orientano la fede dentro la cultura di questo tempo nel quale vediamo prevalere fattori di incertezza che sembrano scoraggiare l’esperienza credente. Ogni domenica il celebre teologo, firma cara ai lettori di "Avvenire", ci conduce alla scoperta della "fede dove non te l’aspetti" attraverso parole-guida offerte a tutti i "cercatori e trovatori" che vogliono attraversare la vita con ritrovata consapevolezza.

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