Quel cappello, un padre, una gente. (Il sangue antico e buono dell'Italia)
sabato 11 maggio 2019

Questi cappelli grigioverdi con la piuma che invadono Milano mi rallegrano, ma, poi, ascoltando il cuore, sento qualcosa che viene da lontano, doloroso e dolce assieme.
C’era, in un armadio della mia casa da bambina, un’anta che non aprivamo mai. Io, ogni tanto, quando mio padre era lontano per lavoro, lo andavo a socchiudere, forzando la serratura indurita dal disuso. Dietro, nascosto tra cose polverose, c’era un cappello – un vecchio cappello da alpino. Mi pare di vederlo ancora, nella penombra, con la sua penna un po’ sciupata ma diritta. Misterioso cappello: lo stavo a guardare, e mi pareva volesse raccontarmi qualcosa.
Più grande seppi della guerra, della Ritirata di Russia, degli alpini della Julia con cui mio padre Egisto, sottoufficiale, partì, e riuscì, con non molti altri, a tornare, con una medaglia al valore. Lui, di quei giorni con noi bambini non parlava quasi mai. Ne lessi, adolescente, le memorie in un suo libro. Finalmente capii la storia che il cappello nell’armadio mi voleva dire.

Per questo oggi scrivo a quel cappello, simile alle centinaia di migliaia di stamattina, festosi per Milano. Scrivo a mio padre, ai suoi compagni, ai tornati e ai sepolti; e anche a mia madre, nel giorno della sua festa, perché lei pure, come una moltitudine di madri e future madri, è dentro questa storia – il suo nome vergato su decine di buste ora ingiallite dal tempo, lettere dal fronte russo di un alpino innamorato.

Il cappello nell'armadio in una casa di Milano degli anni Sessanta, raccontava a me, figlia del boom, di un tempo che mi pareva remoto, e in realtà distava appena vent'anni. Erano cenni nelle parole degli adulti, e discorsi a bassa voce in casa – quasi che noi bambini non dovessimo sapere. E chi di un mondo sepolto nella neve, in cui i passi affondavano e le membra, sfinite dal gelo, si lasciavano andare, come se il grande sonno che ipnotizzava fosse buono. E inutili le scosse, gli schiaffi, perfino i pugni disperati dei compagni, a cercare di richiamare indietro. Invano. Le sagome immobili ai margini della grande colonna nera sulla neve, in marcia. La nebbia, che nel candore della steppa ingannava e confondeva l’orientamento; le isbe, nei paesi, gremite la notte di feriti, nella calca per ripararsi dal gelo, per sopravvivere. La fame, la fame terribile: dividere in tre compagni, religiosamente, una patata congelata. Questo mondo incredibile mi raccontava il tuo cappello, papà, mentre dalle finestre entrava il rumore di Milano affaccendata, eccitata nel gran lavoro e nel benessere. La fame, io, mai provata. Ma quella volta, a tavola, che volevo buttare una pera troppo matura, tu come mi hai guardato, dicendo solo: «In Russia, con quella ci avrei vissuto due giorni». E la mia mano di bambina sul frutto molle, sapendo ora, si era fermata.

Era, ecco, una reverenza ciò che emanava dal cappello nell’armadio, testimone di sofferenza, morte, ma anche solidarietà generosa, e amicizia. Un compagno, nella fuga da un’isba mitragliata, tornò indietro a prenderti i tuoi valenki, gli stivali caldi che avevi dimenticato. Senza quei valenki, non saresti tornato. Sono nata, sono nati i miei figli, anche grazie al gesto solidale di un alpino.

Quel cappello, formidabile testimone. Di un amore grande, scritto in lettere fitte alla donna che amavi. Di ostinazione, e coraggio. Di domande sgomente, nelle notti fra i feriti e i moribondi. Ho trovato, alla tua morte, in un cassetto un piccolissimo Vangelo brunito dagli anni, con una dedica del 1941, e poche frasi segnate a matita, in rosso. Sul Vangelo di Marco: «Dall’ora sesta all’ora nona, si fece buio su tutta la terra». Su Giovanni: «Fu avviato verso il luogo detto del teschio, che in ebraico si dice Golgota». Solo le parole dell’agonia di Cristo, papà, in quella grande agonia di ragazzi avevi sottolineato. (Tu, che mai ho visto entrare in una chiesa, pure sapevi, in quei giorni di strazio, chi vi accompagnava).
A casa, vi aspettavano le fidanzate, e le madri. Mia madre, e mia nonna, che ostinatamente pregava. Hai scritto che in quel deserto bianco, nei momenti in cui lo sfinimento prevaleva e il sonno della morte chiamava, «solo il pensiero del dolore che ne sarebbe venuto a mia madre mi costringeva a camminare». Perciò la penna sul vecchio cappello raccontava anche storie di donne, di figlie, di mamme ostinate su un durissimo fronte: aspettare, e pregare. Testimoniava a me bambina un tempo tragico, eppure fronteggiato con un cuore molto grande.
Oggi, 2019, nel nostro smemorato e distratto benessere, nell'abbondanza, nello spreco di cibo e di affetti che si consumano e si buttano in fretta, quel cappello grigioverde mi pare un tenace testimone che dice: si può vivere in un altro modo
. Poveri, affamati magari, ma generosi e buoni, alimentati da una speranza radicale. Allora l’onda delle penne nere che colma Milano mi conforta, come fosse sangue antico e buono nelle vene di questo Paese. Tu, papà, se ancora vivessi ci saresti, oggi in piazza Duomo: con quel vecchio cappello sui radi capelli candidi e disordinati – che ti riavvierei, come una madre ora, in una carezza.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: