Lezione argentina
Ci risiamo. È come un terribile déjà vu: l’Argentina si trova ancora una volta sull’orlo del baratro. Tredici anni dopo la più grande insolvenza pubblica della Storia recente, quasi cento miliardi di dollari, l’ennesimo choc valutario è pericolosamente vicino. Da inizio anno il peso si è deprezzato del 20% nei confronti del biglietto verde, con un crollo del 14% in soli due giorni, gli ultimi. L’inflazione reale viaggia oltre il 30%, anche se il governo si ostina a considerarla ufficialmente vicina all’11%, e potrebbe presto lambire il cinquanta. Non solo: le riserve valutarie – letteralmente 'bruciate' dal Banco Central per difendere la moneta e contrastare la fuga dei capitali all’estero – sono scese a poco più di venti miliardi, livello del tutto insufficiente, e sono comunque dimezzate rispetto a un anno fa. Insomma: un nuovo crac è dietro l’angolo. Solo che, a differenza di quanto accadde nell’ormai lontano 2001-2002, a pagarne interamente il prezzo sarebbero gli argentini e non i debitori esteri, compresi i 75mila risparmiatori italiani che tuttora aspettano, dopo una sterminata telenovela giudiziaria, di recuperare una briciola dei vecchi Tango bond. La crisi valutaria ricadrebbe sulle spalle domestiche, soprattutto su quelle più deboli, con inevitabili e drammatici costi sociali per il tracollo economico e i prezzi alle stelle, perché la scelta 'avanti da soli' compiuta da Buenos Aires dopo il default si è rivelata alla lunga insostenibile. E non permetterebbe, ora, di finanziarsi sui mercati internazionali. Gli investitori esteri ne uscirebbero immuni, quelli domestici schiacciati.
Una lezione da tenere a mente per quanti, in piena febbre da spread, con un attacco speculativo sul debito italiano, suggerivano di mandare a quel paese tutti, a partire dall’Europa e dai suoi paletti, per tornare alla lira e ricominciare in buona pace con la propria valuta, stampandola a volontà, senza i rimbrotti – ma anche senza lo scudo – della Banca centrale europea. Quanto fatto a Buenos Aires dopo il fatidico 23 dicembre 2001, isolarsi dal mondo all’insegna di una quasi-autarchia monetaria, all’inizio ha prodotto risultati incoraggianti.
I governi Kirchner (Nestor e, poi, la moglie Cristina Fernandez) hanno scelto di combinare una forte spesa pubblica al controllo del cambio, prima ancorato al dollaro, con ricadute economiche a tratti folgoranti: il Pil è balzato oltre l’8%, grazie al boom delle esportazioni agricole, la soia su tutte, realizzando in poco meno di un decennio un saldo della bilancia commerciale da primato. La disoccupazione è precipitata del 50% e il tasso di povertà si è sgonfiato dal 60 al 30%. Ma nel frattempo non è stata portata a termine alcuna riforma strutturale. È invece cominciata, a partire dal 2007, una manipolazione delle statistiche ufficiali. Come accadde in Grecia, per favorire l’ingresso di Atene nell’euro. Secondo la Casa Rosada, l’inflazione viaggiava al 10%, quando in realtà correva a velocità tripla. La valuta ha iniziato a deprezzarsi e gli argentini hanno ricominciato a comprare dollari, temendo un collasso del peso, alimentando così il mercato nero e la fuga della liquidità. Quando la Banca centrale avrà esaurito le riserve per contrastare tale fuga, sarà costretta a svalutare il cambio. Provocando un crollo dell’attività economica e l’incendio dei prezzi.
L’inflazione è il modo con cui il governo mette le sue mani nelle tasche e nei depositi bancari dei cittadini, li deruba del loro potere di acquisto e ingrossa l’esercito dei poveri. L’atavica trappola sudamericana: regime di cambi flessibili, mal gestito, e iperinflazione. Tagliola che ha ripetutamente ferito l’Argentina, sino a metà Novecento fra i Paesi più ricchi al mondo, prima che iniziasse l’interminabile spirale di crisi valutarie e default. La lezione argentina è da non dimenticare. Soprattutto allorché si favoleggiano le mirabilie di un addio all’euro. Un conto è chiedere con senso e forza all’Europa di abbandonare la sola politica di austerità per favorire la ripresa. Altro pensare di salutare l’Unione e l’Eurozona per ballare da soli.
Il Nobel Simon Kuznets osservò con un’ironia non da tutti apprezzata come ci fossero quattro tipi di Paesi: sviluppati, sottosviluppati, Giappone e Argentina. L’Italia merita di restare fra i primi. E l’Argentina di trovare finalmente governanti all’altezza della sua grande tradizione per esserle a fianco.
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