Il giusto modo della fede. Con Dio, componendo le differenze

Quello che ci ha insegnato il Papa in questo viaggio in Myanmar e in Bangladesh. Un grido profetico che ricorda al mondo che tutti gli uomini sono «immagine di Dio»
December 1, 2017
Il giusto modo della fede. Con Dio, componendo le differenze
La realtà, ci ricorda sempre papa Francesco, si vede meglio dalla periferia che dal centro. E anche da questo punto di vista il ventunesimo viaggio internazionale di Francesco, concluso ieri in due nazioni “periferiche” come il Bangladesh e il Myanmar, ha davvero molto da insegnarci e sotto diversi profili.

Il primo elemento che balza agli occhi è il ruolo pubblico delle religioni. In questi Paesi la fede conta e ispira la quotidianità, contribuendo a contrastare, nonostante la povertà e le difficili condizioni di vita, le paure per il futuro. Quanta differenza rispetto a certa laicità ostile d’Occidente, che aspira a confinare la religione nel privato delle coscienze, che cancella i simboli religiosi anche quando fanno parte della cultura profonda di un popolo, che grida all’ingerenza quando la Chiesa si schiera in difesa dell’umano, cioè delle persone in carne e ossa e della loro dignità. Dal Sud del mondo, e papa Francesco ci aiuta a vederlo, è evidente il tramonto inarrestabile di questa idea tutta occidentale, che ha creato in definitiva soprattutto vuoto esistenziale, individualismi, inverni demografici. È la inerme “rivincita” di Dio. Non prenderne atto sarebbe come negare che ogni giorno c’è l’alba.
Il loro ruolo pubblico, del resto – ed è il secondo insegnamento del viaggio – le religioni se lo sono conquistato con i fatti. In positivo, quando compongono un mosaico di pacifica convivenza come in Bangladesh e come auspicato più volte dal Papa durante la duplice visita. E purtroppo anche in negativo, quando vengono prese a pretesto per la violenza e l’odio. L’itinerario apostolico di Francesco ha incrociato in questi giorni la tragedia politico-religiosa divenuta finalmente emblematica dei rohingya e il Pontefice ha scritto a Dacca – città toccata appena lo scorso anno dalla follia di chi bestemmia il nome di Dio seminando la morte in suo nome – una pagina incancellabile del dialogo interreligioso, il vero antidoto al terrorismo fondamentalista.
La sua richiesta di perdono per ciò che il popolo rohingya ha subito, l’abbraccio paterno e la delicatezza di chiamarli per nome in Bangladesh (rispettando al contempo la particolare sensibilità birmana sull’argomento) sono gesti paradigmatici. Al posto dei rohingya avrebbero potuto esserci anche altri popoli e gruppi perseguitati, o i martiri cristiani in difesa dei quali più volte il Papa si è apertamente schierato.
Non si tratta di privilegiare questo o quello. Il grido profetico di Francesco si leva per ricordare al mondo, ai carnefici come agli indifferenti, che tutti gli uomini sono «immagine di Dio». Al di là dei nomi politicamente o meno “scorretti”.
E qui il discorso chiama inevitabilmente in causa l’azione dei governi e delle istituzioni internazionali. Il «non bisogna avere paura delle differenze» è messaggio anche politico. Non comprenderne la verità comporta, come la cronaca insegna, un prezzo da pagare molto alto.

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