Suor Brambilla: «Dio ama abitare nella fragilità. Missione è dire a tutti il suo amore»
Nella sua prima intervista la prefetta del Dicastero per la vita consacrata (e prima donna prefetto nella Curia Romana) attinge alla sua esperienza di missionaria in Mozambico

Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista a suor Simona Brambilla, prefetta del Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica – nonché prima donna a essere nominata prefetto nella Curia romana – la cui versione integrale appare oggi sul numero di ottobre di “Donne Chiesa Mondo”, mensile dell’Osservatore romano.
Che cosa significa oggi essere una missionaria? – chiediamo a suor Simona Brambilla, prefetta del Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica e Missionaria della Consolata, con un percorso di missione in Mozambico.
«La missione – risponde – è una chiamata a partecipare del dinamismo di Amore di Dio Trinità, che deborda all’esterno fino a creare, amare, chiamare a sé le sue creature perché partecipino pienamente alla sua gioia, e inviarle a condividere questa gioia con altre creature. Questa chiamata riguarda tutti e tutte: la Chiesa è missionaria per sua natura. Nel mio caso, come missionaria della Consolata, il carisma della missione ad gentes nel segno della Consolazione qualifica la risposta a questa chiamata come un uscire dal proprio contesto e dalla propria cultura, andare e rimanere in particolare con chi non conosce Cristo, riconoscere nell’esperienza della persona e del popolo le tracce, i semi e i frutti dell’azione dello Spirito, condividere il tesoro della fede, tessere ponti sui quali diverse esperienze e sapienze possano incontrarsi, dialogare e camminare assieme verso la Luce di Dio. Credo che oggi abbiamo bisogno di approfondire percorsi missionari all’insegna del riconoscimento della comune umanità che ci rende fratelli e sorelle, del rispetto, del dialogo sincero, dello scambio di doni. Papa Leone XIV, nel suo primo discorso il giorno della sua elezione, ha richiamato questi temi».
E che cosa ha imparato in particolare dalla sua esperienza in Mozambico? – chiediamo ancora.
«La missione è stata ed è per me essenzialmente un dono, un grande dono di Dio. Quando sono entrata tra le missionarie della Consolata, pensavo che la missione fosse una cosa bella. Ma quando l’ho sperimentata, ho scoperto che era molto, ma molto più bella di quanto pensassi. Arrivai in Mozambico nell’anno 2000. Dopo i primi mesi trascorsi a Maputo studiando la lingua portoghese e dando una mano come infermiera durante la tragedia delle alluvioni che avevano devastato gran parte del Paese, fui destinata a una missione al nord, a Maúa, nella provincia del Niassa, tra la popolazione Macua. Vi rimasi solo due anni, anche se poi continuai a ritornarvi periodicamente per portare avanti, assieme alla gente, una ricerca interdisciplinare sulla evangelizzazione inculturata tra il popolo Macua. Fu un periodo intensissimo e benedetto. Ebbi la grazia di incontrare lì missionari e missionarie che seppero non solo accogliermi e accompagnarmi ad inserirmi nell’ambiente, nella cultura e nella pastorale del luogo, ma anche ad aprire la mia anima al senso più profondo della missione. La popolazione di quella zona mi accolse con grande benevolenza, apertura e pazienza. Rimasi senza parole al constatare la capacità di dialogo, di condivisione della gente che apriva il cuore a una “straniera”, la quale parlava a stento il portoghese, non capiva ancora la lingua Macua, era del tutto ignorante della sapienza e della tradizione culturale del popolo e veniva dall’altra parte del mondo. Lì, piano piano, ho scoperto la missione come scambio di doni, come reciprocità, come cammino di ascolto, apprendimento e riconoscimento non solo dei semi del Verbo ma anche dei frutti che lo Spirito ha fatto crescere e maturare nell’animo delle persone e del popolo».
La sua nomina a prefetta ha fatto storia nella Chiesa. È un fatto. Ma lei ama definirsi prima di tutto “missionaria”. Anche papa Leone XIV, prima e dopo l’elezione ha sottolineato il suo essere missionario. Perché – domandiamo dunque a suor Simona Brambilla – la missione è ancora necessaria in un mondo globalizzato, segnato da crisi culturali, ambientali e spirituali?
«La missione è essenziale oggi come ieri, perché l’amore, quello vero, è essenziale. Quanto abbiamo bisogno di recuperare il senso profondo della nostra umanità, di riconoscerci fratelli e sorelle in umanità, di riscoprire che la nostra umanità è “cosa molto buona” (Gen 1,31), di offrirci reciprocamente rispetto, apprezzamento, gentilezza, delicatezza, ascolto, attenzione, accoglienza, perdono, fiducia, affetto, amore sincero!».
Ma da missionaria – domandiamo - cosa ha imparato sulla Chiesa e sull’umanità “in uscita”? E cosa porta con sé in questo suo incarico romano?
«Non posso separare la mia vita dalla missione – riflette –. Quindi, in questo servizio, portando ciò che sono, porto anche tutta l’esperienza missionaria che il Signore mi ha donato di vivere. La missione mi ha aperto il cuore allo stupore del riconoscere la presenza di Dio, i semi e i frutti del suo Spirito nei popoli, nelle diverse culture, nelle varie tradizioni religiose, nell’intimo delle persone con le loro storie diverse, uniche, sacre. Mi ha aperto alla gioia dello scambio fruttuoso tra diversi, all’esperienza dell’interculturalità all’interno della comunità e col popolo a cui sono stata inviata, alla ricerca insieme, al dialogo interreligioso, alla bellezza del costruire insieme ponti sui quali possano transitare sapienze ed esperienze. Ovviamente tutto ciò comporta delle fatiche, ma la vita e la bellezza che sprigionano queste interazioni superano immensamente il peso delle fatiche e delle difficoltà e conferiscono ad esse il giusto significato. La missione mi ha pure portato a gustare in modo esistenziale il senso più vero dell’essere Chiesa: la Chiesa esiste per evangelizzare, la Chiesa è missione, è comunicazione dell’Amore di Dio per tutti e tutte, è uscire verso le periferie, e le periferie più periferiche sono quelle dove il Vangelo non è conosciuto e dove i cuori, spesso a causa di ferite e dolori profondi e inascoltati, non sono ancora aperti ad accogliere Gesù.
La missione mi ha stimolato ad un cammino di semplicità ed essenzialità, che sento il bisogno di rinnovare ogni giorno: davanti a fratelli e sorelle impoveriti e privati di ciò che è necessario ad una vita umana dignitosa, mi sento provocata a svegliarmi dai miei sonni, a convertirmi dalle mie lamentele, a non permettermi di adagiarmi in qualche tipo di comodità. Sento che fino a quando un fratello e una sorella saranno ancora nella sofferenza, nell’abbandono, sotto il peso della guerra, della violenza, dell’abuso, dell’indifferenza, dello sfruttamento, non ho alcun diritto di vivere una vita “tranquilla”.
Ancora, l’esperienza missionaria ha acceso in me una nuova sensibilità alla piccolezza, alla fragilità, alla vulnerabilità come luoghi in cui Dio ama abitare e dai quali Egli ama evangelizzare, lontano dai parametri della grandiosità, della visibilità, del potere, del dominio. Mi pare che tutto ciò possa avere dei risvolti in questo servizio alla vita consacrata, che, in qualsiasi forma essa si esprima, porta sempre in sé la dimensione missionaria».

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