mercoledì 31 maggio 2017
A quasi quattro anni dal rapimento, un libro appena uscito ripercorre l’impegno sul campo del gesuita romano: «La profezia messa a tacere». Padre Lombardi: «Cosa avrebbe fatto in questo tempo?»
Padre Paolo Dall’Oglio

Padre Paolo Dall’Oglio

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Una galleria di ritratti, come una serie di foto scattate con diverse angolature da chi lo ha incontrato, in questo ultimo trentennio, sul campo, in Siria. «Paolo Dall’Oglio. La profezia messa a tacere» (San Paolo, pagine 210, euro 16,00) – a cura di Riccardo Cristiano, con l’introduzione di padre Federico Lombardi (di cui pubblichiamo un'ampia sintesi) – è un testo promosso dall’Associazione giornalisti amici di padre Dall’Oglio, a quasi 4 anni dal rapimento del gesuita romano il 29 luglio 2013. Nella seconda parte del volume una raccolta di scritti, tratta dalla rubrica che Dall’Oglio teneva sul mensile “Popoli”, compreso l’ultimo articolo pubblicato mentre era già in mano ai suoi rapitori. Infine una serie di riflessioni, fra cui quelle di Paolo Branca, Antoine Courban, Massimo Campanini sulla sua opera di dialogo religioso e politico legato alla «tragedia del suo popolo» siriano, nella speranza di poterlo presto reincontrare.

Da tre anni e mezzo non abbiamo più notizie di Paolo e la Siria continua a morire. Cos’avrebbe fatto Paolo in questo tempo se avesse potuto continuare a muoversi e a parlare? Cos’avrebbe fatto o detto di più per il popolo siriano di quanto aveva già fatto e detto fino a quel fatidico 29 luglio 2013? In una delle testimonianze di questo libro si osserva che quei giorni a Raqqa erano il momento peggiore per arrivarci, perché l’Isis stava prendendo il controllo ed eliminando gli oppositori, e «proprio perché il momento e il luogo erano pessimi, non era strano che ci fosse padre Paolo». [...]

Sono pur sempre le sue parole, soprattutto le ultime a toccarci con quella forza e quella passione che ha segnato e continuerà a segnare ogni nostro incontro con lui. Quando ci parla della speranza che lo animava: «La speranza è dell’ordine del combattimento, non delle previsioni» (luglio 2013). Quando ci parla della morte del padre Murad: «Il suo martirio è gloria per la Chiesa e pessima notizia per la rivoluzione siriana... La lotta è impari...» (ultima lettera, metà luglio 2013). [...] In questi anni cruciali della storia del mondo, quando i popoli occidentali non capiscono e non sanno che cosa significa la venuta tra loro di altre genti e in particolare di innumerevoli musulmani, si chiudono e si spaventano; quando i musulmani faticano a fare i conti con le sfide della modernità e si combattono crudelmente uccidendosi tra loro nelle loro stesse terre con la complicità odiosa di grandi poteri e grandi potenze, e scorrono fiumi di sangue... In questi anni in cui papa Francesco ci parla con lungimiranza di una «guerra mondiale a pezzi», Paolo ci invita a riaprire le pagine antiche del libro della Genesi e rileggere la storia di Abramo, per ascoltare il grido della sete di Ismaele, il pianto di sua madre Agar – la ripudiata, la madre dei musulmani – e vedere anche noi la fonte dell’acqua che le viene indicata da Dio nel deserto. Intitolando “La sete di Ismaele” la sua rubrica regolare sul dialogo islamocristiano, e ricordando il grido di Gesù in croce: «Ho sete!», Paolo ci invita a «riconoscere il valore cristologico ed ecclesiologico del grido degli esclusi: un grido qualche volta scomposto o addirittura terrificante, ma un grido che la Chiesa non può non riconoscere come pertinente la storia della salvezza». Riusciremo a risalire così indietro verso le origini e a scendere così in profondità? Riusciremo a riconoscere le divisioni antiche per poterle risanare, a intuire e far nostro il desiderio di pace universale del Padre creatore di tutti e del suo Figlio che muore per riconciliare tutti i suoi figli? Ma se non ci proviamo neppure come potremo sperare di trovare luoghi spirituali solidi e veri di incontro e dialogo tra le culture e le loro dimensioni religiose, come potremo sperare di sfuggire alle tentazioni e agli inganni continui delle divisioni e dell’odio omicida? «Ponti e non muri», dice Francesco e prega con gli occhi chiusi e il capo poggiato in silenzio sul muro che attraversa Betlemme, aspettando, sognando e sperando un mondo fraterno senza muri.

Deir Mar Musa, sulla riva del deserto, rinato dal cuore di Paolo, è un ponte. La sua piccola e fragile comunità, che ho potuto accompagnare qualche mese fa da papa Francesco, continua la sua esistenza di testimonianza con la forza della speranza e della fede. La piccola icona che ha donato a Francesco – Mosè davanti al roveto ardente – è appesa nella sua stanza, sempre davanti ai suoi occhi, nel cuore della Chiesa universale. Mosè incontra il mistero di Dio: il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (non possiamo aggiungere anche: il Dio di Ismaele, che ne ha dissetato la sete?) chiama e manda il suo profeta per liberare il suo popolo, nel quale devono essere benedette tutte le genti della Terra.

Il suo popolo è in ogni angolo del mondo, ma Paolo, concretamente, lo incontra nel popolo della Siria che aspira a crescere nella libertà. Nella sua lettera alla vigilia del diaconato Paolo scriveva: «Il dialogo è anche il mio impegno “politico” perché porta alla pace e alla giustizia, ma allora è evidente che non deve essere un dialogo di chiacchiere ma di segni e fatti concreti. La mia esperienza mediorientale mi insegna che tutti i livelli dell’esistenza sono coinvolti nel conflitto dalla religione fino all’economia ed il dialogo si deve fare a tutti i livelli nella loro interdipendenza. Concludendo, è questo servizio [diaconia] del dialogo per la pace con Dio e tra noi che vorrei fosse il senso di questa mia ordinazione diaconale; servizio sempre necessario, e parte già di quell’azione sacerdotale che è la celebrazione del mistero di Gesù nostra pace».

I segni e fatti concreti per un uomo dedicato e coraggioso come Paolo arrivano fino a mettere in gioco la vita. I figli del suo popolo gliene sono grati. In queste pagine arriviamo a leggere: «Padre Paolo è il simbolo della nostra speranza nella pace, una forza di ispirazione alla quale rivolgerci nelle ore difficili. Spesso mi sono chiesto: “Cosa farebbe Paolo al mio posto?”. Oggi so solo che lo aspettiamo, attendendo di avere risposte ai nostri dubbi e consapevoli che Dall’Oglio è la Siria e noi siamo figli suoi».

Grazie, Paolo, per le strade che hai aperto, i ponti che hai costruito, le speranze che hai fatto germogliare e continui ad alimentare. Tutti crediamo che l’incontro con te – quando? dove? come? lo sa Dio – sia davanti a noi.


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