mercoledì 15 novembre 2017
Intervista alla signora del jazz, figlia d'arte cresciuta cantando accanto a Max Roach e Sonny Rollins, nel nuovo disco celebra la musica della sua Memphis: «Blues, soul, gospel: sono le mie radici»
Dee Dee Bridgewater

Dee Dee Bridgewater

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Denise Eileen Garrett, alias Dee Dee Bridgewater, è considerata una delle più importanti cantanti jazz degli ultimi vent’anni, forse la migliore. E siccome si ciba di jazz da quando esordì, subito al fianco di icone tipo Thad Jones, Dexter Gordon, Sonny Rollins o Max Roach, anche il suo album per l’anno del primo secolo di jazz è un disco jazz. Ma con coraggio non un disco “di” jazz, perché Memphis… Yes, I’m ready è un caleidoscopio di stili che prende le mosse dalla città che nel ’50 diede i natali alla cantante, quella Memphis che negli States chiamano “Soulville”, patria del soul.

Però il jazz per i jazzisti è un’attitudine: ad affrontare la musica sparigliandone le carte, in una complessa e affascinante mescolanza di rispetto e stravolgimento. Così è sempre con piglio jazz che Dee Dee, nota da noi soprattutto per come rese esplosivo il grande pop di Pooh e Marco Masini nei Sanremo d’inizio anni 90, ha affrontato pure la patria propria e del soul. Rileggendo I can’t get next to you di Al Green in raffinato equilibrio tra blues e disco; omaggiando l’Otis Redding di Try a little tenderness in modo prima delicato poi incalzante; offrendo straziata intensità a ribaltare le abitudini d’ascolto di The thrill is gone, standard di B.B. King. E squadernando pure Elvis Presley, che di Memphis è re pur non avendo nulla a che fare con jazz o soul, in una Don’t be cruel scarnificata e una Hound dog graffiante e ironica: che Dee Dee conduce nel cuore dell’r’n’b, all’interno della cifra musicale tipica di Memphis, dentro il senso più profondo di quello che chiamiamo jazz, ovvero dar nuova vita a standard delle sette note.

Del resto fa così da sempre, l’ha fatto in Afro blue l’esordio del ’74, in Victim of love con Ray Charles, nelle sfide (vinte) ai cataloghi di Duke Ellington o Billie Holiday, e oggi torna a farlo guardando alla “sua” Memphis da primattrice della voce materica e volatile, sfrontata e sensuale, ribelle e maliarda, colorata di ogni colore del jazz.

Cosa cercava nella storia musicale di Memphis?

«Cercavo di ricostruire la mia gioventù, mio padre, come si viveva allora. L’eredità musicale di Memphis è enorme, ma non volevo farne un’analisi e nemmeno un’antologia. Volevo ritrovarne le emozioni».

Che musica le fece scoprire suo padre, trombettista?

«Lui mi ha fatto conoscere i virtuosi del jazz, e mia madre le cantanti: con lui ho imparato Dizzy Gillespie o Miles Davis, con lei che amava personaggi più oscuri Gloria Lynne e Lorez Alexandria. Da sola andavo pure verso Harry Belafonte o Johnny Mathis».

Che cosa rappresentavano per lei, futura cantante di jazz, il blues, il soul e il gospel che qui rilegge?

«La musica è sempre musica, e nei miei primi ascolti furono decisivi Muddy Waters, John Lee Hooker, Bobby Blue Bland… Il blues, soprattutto. Fu la finestra da cui capire le storie della comunità di colore, le sue sofferenze: più che con le melodie, tramite i testi».

Ed Elvis, come si riallaccia a una jazzista?

«Guardi, quand’ero ragazza era sempre in primo piano: accendevamo la tv e c’era lui, passavamo alla radio e trasmettevano lui, andavo nella mia stanzetta alla mia radiolina e rieccolo… Era importante rileggerlo, anche sottolineando che Hound dog non è sua, l’ha resa nota ma era un blues del ’52: bisogna mantenere memoria, dei grandi autori della grande musica».

Con B.B. King lei ha anche cantato, in concerto…

«Infatti ho riletto un suo classico per ricordare la nostra amicizia: nonché il fatto che lui era Dj con mio padre alla WDIA, la prima radio di black music, quella che mi ha formato. Nel disco canto anche la prima canzone che vi sentii, Giving up di Gladys Knight, o I can’t stand the rain e la title track che si legano ai miei amori dell’high school, quand’ero una ragazzina timidissima…».

Che cosa significa per lei "jazz", oggi?

«Il jazz è libertà di espressione, essere in grado di prendere una melodia e lavorarci su improvvisando. Perciò anche in questo cd c’è la mia sensibilità jazz, direi un jazz innestato su altri generi».

Quali grandi del jazz ricorda di più, dei tanti con cui ha lavorato?

«Gillespie e Clark Terry (pioniere del flicorno nel jazz, nda) che per primi mi fecero cantare in pubblico. Sonny Rollins che mi portò a New York. Poi Miles che è il mio eroe, con le sue escursioni musicali… E la grande Betty Carter, mi ha aiutato molto, o Nancy Wilson, un esempio di libertà».

Lei che dischi consiglierebbe a un giovane?

«Non ascolto molti dischi, sa? Ho una memoria sonora fotografica, quanto mi colpisce cerco di assorbirlo e viverlo. I giovani devono ascoltare musica, musica in sé: cercandovi quanto assomiglia alla loro anima».

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