venerdì 15 gennaio 2016
La mutazione che ha sconvolto il nostro presente e il nostro futuro ha travolto molte cose e ha perfino modificato la considerazione che avevamo del nostro passato. Tutto sta cambiando nei nostri modi di vivere e di conseguenza nella nostra percezione delle cose e degli altri. Nella società tutto cambia anche quando non ci se ne rende conto fino in fondo, per la sopravvivenza delle vecchie abitudini, e tutto sta cambiando anche dentro di noi. Uno degli aspetti più impressionanti, per chi ha vissuto abbastanza da poter ricordare un mondo diverso, è la scomparsa o la drastica riduzione nel numero dei suoi membri, di interi gruppi sociali: i contadini («il più enorme genocidio del secolo scorso», diceva Kapuscinski), gli operai di fabbrica, gli artigiani, i piccoli commercianti soffocati dai supermercati. Altri ceti fino a ieri consistenti stanno perdendo di rilievo, e sono già destinati a una secondarietà che appare priva di possibilità di riscatto, per esempio il ceto pedagogico (per il quale devo confessare di avere sempre avuto scarsa simpatia, con rare e meravigliose eccezioni). Insomma, in che mondo siamo precipitati, e perché? Come è stato possibile, e perché abbiamo permesso che lo fosse? Queste domande attendono risposte attive, non solo teoriche… Ho letto con due forme alternate di angoscia il Diario di fabbrica di Simone Weil che Marietti ha pubblicato per cura di Maria Concetta Sala e con prefazione di Giancarlo Gaeta, un testo al solito profondo ed essenziale, di quelli che non menano il can per l'aia e vanno diritti al sodo. La prima, il sentimento della scomparsa, con il tipo di operai che ho conosciuto e per molti anni frequentato (a Torino, a Milano, a Pomigliano d'Arco e altrove) di una speranza di emancipazione dell'intera società, perché sì, per molto tempo abbiamo creduto, con Marx e con i vecchi socialisti, che da loro, anche se non solo da loro, potesse prender corpo l'anelito a una società migliore, dove le parole uguaglianza, libertà e fraternità potessero inverarsi. Anche se “l'operaiolatria” di cui l'anarchico Berneri accusava i marxisti escludeva i contadini, gli artigiani, gli impiegati dall'aver peso nel dopo-rivoluzione, con le tremende conseguenze che si sanno, per esempio nell'Urss. La seconda, il confronto con una realtà durissima e spesso infame, di cui il Diario di fabbrica di Simone Weil, più del suo stesso saggio su La condizione operaia, dà conto con allucinata chiarezza. «È l'opera intera di Simone Weil a discendere da quella prova», dice Gaeta: a «occupare la sua riflessione fino alla fine, seppure investita da rinnovata visione spirituale che dell'esperienza di fabbrica porta il marchio». È un confronto diretto con la realtà dello sfruttamento e con il dominio della macchina ad avere innervato le riflessioni più utili del nostro ieri, e la loro assenza fa sì che oggi si subisca senza reagire un dominio, in paesi come il nostro, più ideologico che concreto, e per questo più subdolo.
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