venerdì 19 ottobre 2018
Alle primissime luci del giorno dopo il parto mi strappò dal sonno un suono che non avevo mai sentito. Veniva dal fondo del corridoio, e si faceva sempre più forte. Mi affacciai. Non era un pianto, era un coro di pianti di molti neonati affamati. Stavano in dieci su un grosso carrello con cui a quell'ora li portavano alle madri, per la prima poppata. L'infermiera li distribuiva nelle stanze: un attimo, e il bambino si quietava. Gli ultimi rimasti sul carrello, arrabbiatissimi, rossi in volto, urlavano come stessero morendo per la fame. Con che forza, con quale potenza di fiato. Mi ricorderò per sempre di quel carrello che irrompeva con fragore nel reparto puerpere all'alba. È prepotente, è travolgente il sangue, nel petto di un bambino. Li consideriamo fragili, ma quel giorno mi parvero piccoli leoni. Quanto la vita voglia vivere e perpetuarsi, ostinata, l'ho sentito quel mattino, in quel pianto rabbioso. Il coro parlava una lingua viscerale che mi pareva di capire. E come, sfamati, quei nostri figli si abbandonavano al sonno fra le nostre braccia. Nelle più giovani vedevi sulla faccia l'affiorare della donna oltre la ragazza, in un nuovo sguardo, premuroso e vigile. Pensai agli occhi delle gatte che covano la cucciolata. Fiere e decise a proteggerla, a costo della vita.
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