sabato 4 gennaio 2020
Nessuno dice "da grande faccio il martire". Nel senso che il martirio, in sé, non è una cosa automaticamente riconducibile, o intrinseca, a un percorso che si intraprende. È piuttosto una disponibilità, o meglio ancora la consapevolezza di quel che può comportare l'essere seguaci di Cristo. Per dirla con le parole di Benedetto XVI, il martirio è «esclusivamente un atto d'amore, verso Dio e verso gli uomini, compresi i persecutori… Il legame profondo che unisce Cristo al suo primo martire Stefano è la Carità divina: lo stesso Amore che spinse il Figlio di Dio a spogliare se stesso e a farsi obbediente fino alla morte di croce, ha poi spinto gli Apostoli e i martiri a dare la vita per il Vangelo». Che alla fine è ciò che rende il martirio cristiano diverso da quello dei kamikaze o di una qualunque vittima dei propri ideali.
E soprattutto, il martirio, non è una cosa che appartiene al passato. Tutt'altro. «Nel nostro secolo sono ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi militi ignoti della grande causa di Dio», come scrisse Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente. Parlava del Novecento, papa Wojtyla, ma non è che nel nuovo millennio le cose siano molto cambiate, anzi. Secondo l'ultimo rapporto sulle persecuzioni anticristiane nel mondo, pubblicato alla fine di ottobre dalla Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre, sono oggi oltre trecento milioni i cristiani, ossia uno su sette, che vivono in Paesi a rischio persecuzione, dall'Africa all'Estremo Oriente. Nel rapporto, al di là dei numeri dei caduti, e sono numeri di guerra – 258 morti, di cui 45 bambini, con diciotto sacerdoti e una suora uccisi lo scorso anno – viene sottolineato con preoccupazione come nel periodo tra il 2017 e il 2019 l'area in questione si sia ulteriormente allargata, arrivando a comprendere zone "insospettabili", e pericoloso anche il semplice andare a messa. Al punto da far dire a papa Francesco, lo scorso 26 dicembre, nel giorno della festa del primo martire, Santo Stefano, che ancora «oggi di martiri ce ne sono tanti». Ad alimentare quella lunga scia di sangue iniziata proprio con Stefano, e che prosegue purtroppo imperterrita fino ai giorni nostri. Una scia, ha detto Bergoglio, che indica alle comunità cristiane la strada per l'evangelizzazione delle «periferie esistenziali e geografiche», facendosi carico di chi soffre, «specialmente dei piccoli e dei poveri», senza seguire «la logica mondana». Proprio l'esempio di Stefano, ha aggiunto, deve essere «fonte di ispirazione per il rinnovamento delle nostre comunità cristiane», chiamate «a diventare sempre più missionarie, tutte protese all'evangelizzazione, decise a raggiungere gli uomini e le donne nelle periferie esistenziali e geografiche, dove più c'è sete di speranza e di salvezza».
Servono, insomma, «comunità che non seguono la logica mondana, che non mettono al centro se stesse, la propria immagine, ma unicamente la gloria di Dio e il bene della gente, specialmente dei piccoli e dei poveri», e per questo è necessario «tenere lo sguardo fisso su Gesù, autore e perfezionatore della nostra fede», così da poter «rendere ragione della speranza che ci è stata donata, attraverso le sfide e le prove che dobbiamo affrontare quotidianamente». Basta affidarsi a Gesù, senza paura. Perché la nostra prima testimonianza deve essere «proprio il nostro modo di essere umani, uno stile di vita plasmato secondo Gesù: mite e coraggioso, umile e nobile, non violento e forte».
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