domenica 15 luglio 2018
Non son stato io a voler aggiungere qualcosa. È stata Mercedes Mendoza. Ha pensato che la gente che pigliasse in mano questo scritto potrebbe voler sapere cosa sia successo a frate Benedetto (così si chiama, Mercedes mi ha fatto notare che in tutte queste pagine non aveva mai detto il suo nome, e allora ve lo dico io, perché lei, se fosse stata una lettrice, avrebbe voluto saperlo). Insomma, mi tocca di concludere bene o male, a me che non so scrivere, come vi siete già resi conto. La letteratura non è il mio forte, a parte il Vangelo, e ancora, quasi solamente il Vangelo di Marco, mi piace di più, mi sembra il più semplice, soprattutto è il più breve. Del resto, il Vangelo è letteratura? È piuttosto cibo, direi, cibo solido, e io quando apro il libro mi metto a tavola. Del resto, due sono i modi con cui si reclutava nella nostra congregazione dei Ritrovamentisti per l'evangelizzazione di universitari e intellettuali per questo sprofondati in un'invincibile ignoranza dell'amore: o persone che avevano fatto molti studi e molta teologia, capaci di argomentare ancora meglio di loro, o persone come me, assolutamente insensibili ai loro argomenti. Bene. Avevo stabilito di non parlare di me ed ecco che è di me che parlo. È sempre così con la scrittura. Non si sa mai da dove cominciare né come fare per non mentire. Nella vita ci sono le cose che stanno là, che stanno tutte insieme davanti a voi, a muoversi le une con le altre; ci sono anche le cose che si fanno e che si inseriscono in questo movimento ben concreto; e poi, nella nostra testa , o nelle conversazioni, ci sono le parole, si, che vanno e che vengono, girano e rigirano, senza fare mai fino infondo delle frasi, io voglio frasi grandi e belle, con un inizio, una fine e uno sviluppo, senza troppe ripetizioni, come ci ha insegnato la maestra a scuola. Perché, quando si tratta di scrivere, è tutto un altro affare! Bisogna farne, di frasi, con un inizio e una fine. Bisogna mettere le cose le une dopo le altre, trasformarle in parole esatte, articolarle in un certo ordine grammaticale, e io faccio molta fatica a realizzare questa roba qui. Le mie mani non sanno bene da che parte prenderle, le cose, per ammassarle dentro a un testo, quale bisogna mettere all'inizio, quale alla fine, senza trascurare niente di essenziale, senza deformare, mentre c'è comunque tutto un abisso tra l'albero che vedo là (è un'araucaria, detta anche "rompicapo della scimmia") e l'albero, la parola, che scrivo… Del resto, quando parla di me nel suo racconto, frate Benedetto, quando attribuisce dei discorsi a frate Ugo, mi fa parlare molto meglio di me, e divento un personaggio letterario… Toh, ecco qua, ancora: avevo stabilito di non esprimere giudizi, soprattutto su Benedetto, ma solo raccontare come sta adesso, poco tempo dopo che ha scritto le ultime righe che abbiamo letto… E poi quando si deve andare accapo? Lo faccio adesso, perché ho la sensazione che già è un grosso mattone, tutto quello che ho scritto per niente (altro problema della scrittura). A dire il vero, Benedetto non va male. Certo, non parla più molto. Non scrive più per niente. Fa le cose un po' come un automa, tutto ciò che gli si dice di fare, ma tutto sommato ha l'aria felice. Il dottore dice che il suo stato è peggiorato. Non è falso da un certo punto di vista. E, allo stesso tempo, per quanto ne so, non l'ho mai visto così tranquillo. Se gli domandi qualcosa risponde sempre: «Uno, Due, Uno, Due», più raramente «Grazie» o «Perdono». Non è più capace di dire la Messa, ma assiste con un fervore che non gli avevo visto mai prima. Continua a farsi il segno della croce. Molto accuratamente, molto lentamente, molto intensamente. Si direbbe che ci si avvolge come in un cappotto, o che cerca di scomparirvi dietro, come se volesse fare una grande cancellatura sul suo corpo. Di sicuro gioca molto con Ignazio e si stanca prima il cane di andare a prendere la palla che lui di lanciarla. Lo fanno nel giardino della nostra casa di Chan-Chan, quartiere povero di Las Paquitas da cui praticamente ha smesso di uscire. Resta spesso seduto nell'angolo del giardino dove erbacce e limacce hanno avuto ragione dei suoi tentativi di farci un orto. Nei suoi ultimi momenti di lucidità, accanto al libro che scriveva, teneva assolutamente di dedicarsi all'agricoltura («è la base della cultura» ci diceva) e tentava di far crescere ortaggi, soprattutto melanzane, non so perché, teneva assolutamente alla melanzana. Ma non ha avuto mai il pollice verde. Il suo pollice era sempre
macchiato di inchiostro. Gioca tanto anche con Benedetto, il piccolo a cui Marieva e Pepito hanno dato il suo nome e che ha un anno e mezzo, adesso. Gli corre dietro a quattro zampe. È divertente da vedere. Strano anche. Benedetto (il grande) non riesce a prendersi cura di sé, e sono io che me ne occupo, che devo spingerlo a lavarsi, a sistemare la sua camera, pure ad andare al gabinetto quando vedo che si torce
come un bambino che non vuole smettere di giocare a un gioco rischiando di farsela addosso. Ma puoi affidargli Benedetto (il piccolo) ed essere sicuro che ne avrà cura, che lo ritroverai che ride o addormentato tra le sue braccia. Benedetto ama molto sentire Marieva cantare una vecchia canzone di Chavitar, anche se non la prende più alla lettera. Credo che sia perché il ritornello dice: «Vieni a mangiarmi mio Dio / Prendimi nelle tue viscere / In grande pericol son'io / Tempo è ormai di rinascere». La melodia è molto bella, molto triste. Ma Marieva gli canta poi il Salve Regina, e questo lo tocca ancora di più, soprattutto quando arriva all'In hac lacrymarum valle. Che altro ancora potrei aggiungere? Della nostra missione in Metagonia, di ciò che ne ha scritto, ciascuno, penso, avrà separato ciò che è vero da ciò che è nettamente esagerato. Quando parla di me, per esempio, è sempre o un po' troppo cattivo, o troppo troppo lusinghiero, soprattutto verso la fine. Ma insomma, adesso c'ho altre cose da fare. È ora di dire il Rosario con le donne di Chan-Chan. E dopo devo cercare il cibo e cucinare per tutti. I tempi non sono facili. Non siamo mica sicuri che il mondo si rimetterà dalle sue tragedie. Ma si continua, bene o male, perché è nostra missione, provare senza sosta a restare un po' umani, ricominciare, non finché non ci riusciamo, ma, come dice il cantico, «Fino a ché venga / Come sta scritto / E che ci sorprenda / nel buio fitto…». Ah sì, dimenticavo, anche se già ci ho fatto cenno, col Salve Regina. Frate Benedetto piange quasi sempre, e siccome è diventato un fatto banale, mi son dimenticato insisterci su. Ma, siccome ne parla alla fine del suo racconto, Mercedes mi dice che la gente vorrà sapere. Ebbene, con un po' di immaginazione, ma le favole non sono state mai il mio forte, con un po' di immaginazione, si può dire che frate Benedetto si è effettivamente trasformato in fonte.
(45, fine. Traduzione di Ugo Moschella)
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