domenica 6 novembre 2016
Devo confessarlo da queste colonne dove spesso critico il “macchinismo” (talvolta, è vero, troppo meccanicamente): le macchine mi piacciono. Non dico questo soltanto perché è molto difficile, senza frigorifero, trovare una buona birra gelata nel mezzo dell'estate. Mettendo da parte la questione del petrolio e del catrame (che non è piccola) sono pieno di ammirazione per certe motociclette (anche se preferisco un destriero di Rohan) e la linea, la velocità, il ruggito delle vecchie Jaguar non manca di provocare in me un brivido virile. Beninteso, il macchinismo è un tipo di organizzazione sociale, mentre la macchina è una cosa, e forse possiamo immaginare con Marx un mondo dove le macchine si oppongono al macchinismo, perché non sono più le schiave di un capitalismo tecnocratico che vive di rendita. Perché anche le macchine sono alienate. E poi sono state soppiantate, per non dire massacrate, dagli apparecchi… Penso all'Ode trionfale intonata una volta da Álvaro de Campos (uno degli eteronimi di Fernando Pessoa): «O ruote, o ingranaggi, r-r-r-r-r-r-r eterno! / Violento spasimo trattenuto dei macchinari in furia! / […] Guardando febbrile i motori come una Natura tropicale / – Immensi tropici umani di ferro, di fuoco, di forza – / Io canto, e canto il presente, e anche il passato e il futuro…» Questi versi non sono riducibili alla loro ironia. Testimoniano di un'autentica fascinazione estetica davanti alle fiamme della caldaia, il gioco degli ingranaggi, le differenze di ritmo tra uno grosso e uno piccolo, tra uno tondo e uno ovale, l'ammaliante meccanismo biella-manovella che trasforma il va-e-vieni rettilineo di un pistone in un movimento perfettamente circolare. La locomotiva a vapore di Come vinsi la guerra (The General), particolarmente nella scena dove Buster Keaton e la sua fidanzata salgono e scendono seduti sulla biella di accoppiamento, è di innegabile bellezza architettonica e musicale. La musica stessa è contemporaneamente clocks and clouds, per riprendere l'espressione di György Ligeti: non si dispiega soltanto attraverso le nuvole e i tappeti armonici dallo sviluppo organico; ubbidisce anche al metronomo, alla precisione orologiera, a cadenze esplicitamente meccaniche (Pacific 231 di Honegger, la Sinfonia n°4 di Prokof'ev…) che ricordano le regolarità celesti della rivoluzione degli astri. Così si comprende la poesia futurista, capace di associare il lirismo più sfrenato e la mietitrebbiatrice. In un altro ordine di idee – meno romantico – lo scultore svizzero Jean Tinguely ha trovato di meglio che non fracassare le macchine. Ludico piuttosto che luddista, ne ha inventate di gigantesche che però non servono assolutamente a nulla (come le sue Méta-Harmonie I & II). La macchina si svela allora per ciò che è, nella sua causa materiale: un'enormità di ferraglia traballante e cigolante, con il ridicolo delle sue coppie dove una ruota nervosissima vive coniugalmente con un grosso ingranaggio bolso e soddisfatto, dove un pistone si eccita in un cilindro per partorire un effetto quasi nullo su una pompa che emette un suono di pneumatico che si sgonfia… Per entrare in questa estetica e apprezzarla con la nostalgia che si prova davanti alla macchina da cucire della bisnonna, bisogna opporla al design degli apparecchi contemporanei. Mi sembra infatti che la distinzione macchina/utensile sia insufficiente. Prima di tutto è troppo lapidaria e non manifesta abbastanza le sfumature: esistono macchine-utensili; c'è un modo di sentire fisicamente la strada sulla moto, di avere un rapporto carnale con i pedali e il volante dell'automobile, in una guida che prolunga il nostro corpo quanto una sgorbia o un violoncello… Se l'abitacolo diventa invece una comoda bolla, con i suoi radar, il pilotaggio quasi automatico, i sedili che massaggiano, il veicolo cambia natura senza tuttavia cambiare carrozzeria. È qui che la distinzione binaria tra gli oggetti tecnici mostra la sua inadeguatezza. Manca un terzo termine: l'apparecchio. Aldilà delle possibilità ibride bisogna ormai considerare una tripartizione tra tools, machines e devices. L'apparecchio, nella definizione che propongo, non appartiene più alla meccanica ma all'elettronica. Con questo cambiamento di procedimento si opera un cambiamento di scala che fa che il suo funzionamento esca della percezione comune o quotidiana. Mentre ciò che accade tra gli ingranaggi della macchina ci salta agli occhi, ciò che accade attraverso i componenti dell'apparecchio non appartiene più all'ordine delle cose visibili a occhio nudo e dunque si sottrae a ogni estetica. L'apparecchio non si mostra con franchezza. Di fronte all'onestà ingenua della macchina, esso è contrassegnato da una profonda doppiezza, quella dell'hardware e del software, quella di un funzionamento materiale che si nasconde (tanto che si può credere alla sua immaterialità) e di un'apparenza esterna che seduce (tanto che si immagina che tutto avvenga su questa superficie). La bellezza della meccanica era opera indiretta, non intenzionale, del costruttore, che accadeva come un sovrappiù alla sua composizione rigorosamente utile e operazionale, e che provava che l'utilità stessa non sfugge a una sfera di gratuità che le è anteriore. L'involucro dell'apparecchio, al contrario, è il prodotto volontario del design. Non è come la conchiglia che il mollusco secerne. Esso si sovrappone, in modo equivoco e seduttore. Quanto allo schermo, il suo vetro lo apparenta all'immaginario della trasparenza, mentre è il luogo di una occultazione radicale. Emblematico è a questo proposito il Mi-MIX, lo smartphone disegnato da Philippe Starck per conto della società cinese Xiaomi: i bordi sono spariti, lo schermo intende occupare tutta la superficie dell'apparecchio; si ha l'impressione di tenere in mano una finestra, una breccia, una semplice apertura su un mondo cangiante e docile, senza macchinari né macchinazioni dietro. La macchina di un tempo poteva essere schiacciante, sputare fumo e fuoco, stritolare gli uomini con la sua mascella, come un drago di metallo. Aveva almeno la lealtà di mostrarsi come tale. L'apparecchio è più subdolo. Si presenta come conviviale. Vanta la sua ergonomia. Sembra innocuo quanto un quaderno o una caramella. E tuttavia ci lega a un dispositivo globale molto più tentacolare e più mostruoso delle vecchie fabbriche. E lo fa invisibilmente, ipocritamente, soavemente persino, non abbiamo più motivo di spaventarci né di compiangerci come se stessimo per essere tranciati da un laminatoio. Al contrario, l'abbiamo quasi sempre nelle mani, quasi fosse un'ancora di salvezza, la corona del rosario dei tempi post-storici. Così gli ingranaggi sono spariti, ed è ormai raro che possiamo meravigliarci davanti a una meccanismo biella-manovella. Siamo arrivati a un punto in cui le vere macchine, con la loro estetica senza orpelli, quasi cistercense, provocano in noi una imbarazzante ma potente nostalgia.
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