venerdì 15 maggio 2020
V erso le sei di sera, dalla finestra aperta nel primo caldo di maggio, improvviso un coro di clacson nervosi. Sobbalzo: non ci sono più abituata. Ma un momento dopo mi domando: clacson? Vuol dire che c'è un po' di traffico, che un incrocio è ingombro, che c'è un rallentamento. Quindi che ci sono auto in giro, che il lockdown di Milano si sta sciogliendo, piano, come il ghiaccio nelle strade alla fine dell'inverno. Clacson? Fantastico, mi ripeto, e sorrido. Il bar all'angolo, quello coi tavolini fuori dove il sole batte la mattina presto, dopo due mesi ha riaperto. Saluto il proprietario come un vecchio amico, contenta di rivederlo. Anche il mio cane si avvicina per ricevere la consueta carezza, che non ha dimenticato. Quel micro mondo che è un quartiere metropolitano torna in se stesso. Lentamente. Ma è già lontano il deserto e il silenzio dei primi giorni di lockdown, e anche, la sera, quel filo di paura, nelle strade in cui non incrociavi nessuno. Questo alzarsi di saracinesche, questo alacre arieggiare e ripulire, e il ritorno di facce familiari, mi fa pensare a quando, da bambina, in montagna contemplavo l'arrivo di violenti temporali. Nello scoccare dei primi lampi dal cielo nero tutti i vicini correvano a chiudere vetri e imposte, a richiamare i bambini dai cortili, e anche le rondini zittivano, e si rifugiavano sotto le grondaie. Poi tuoni, grandine, fulmini: come finisse il mondo. Ma ecco, la tempesta si allontanava, schiariva il cielo, si affacciava un raggio di sole. E allora tutti a riaprire gli scuri e le porte, il fabbro dall'officina ricominciava a martellare, e noi bambini tornavamo a giocare. Quel momento, la fine della tempesta, mi ricorda questo nostro primo uscire di casa. Cauto: come le donne che vedevo affacciarsi alle finestre, a spiare la ritirata delle nuvole nere. E, rasserenate, rimettevano allora sui davanzali i vasi di rose.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: