Da Amleto a Manzoni, il teatro di Testori spiega tutta la sua opera

La parola come drammaturgia, i gesti attoriali, la ricerca di Dio: un libro ripercorre la produzione scenica dello scrittore milanese, evidenziando i punti comuni con letteratura e critica d'arte
July 21, 2025
Da Amleto a Manzoni, il teatro di Testori spiega tutta la sua opera
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Giovanni Testori è stato tante cose: romanziere, drammaturgo, poeta, critico d’arte, editorialista... Ma si potrebbe dire che in lui tutto era teatro. Perché da Testori, in tutta la sua opera, «arte e teatro sono posti su un piano di equivalenza». Il teatro è per lui il «punto genetico comune» di tutti i generi espressivi, tra i quali nella sua visione non esiste separatezza alcuna. Lo scrive Giuseppe Frangi nella premessa al volume dal titolo Per Giovanni Testori. Il teatro (Loffredo, pagine 162, euro 20,50). Curato da Isabella Becherucci, Fabio Pierangeli e Carlo Serafini, il libro presenta gli atti della giornata di studi dedicata a Testori dall’Università Europea di Roma il 16 novembre 2023, nell’anno che ha segnato insieme il centenario della nascita e il trentennale della morte dello scrittore di Novate Milanese.
«Cos’è l’arte e, nell’arte, cos’è mai il teatro, se non un’imitazione della vita che la vita scompone e distrugge nelle sue apparenze per toccarne la realtà, il viscere e il sangue?». A parlare è Amleto, con le parole che Testori gli presta nella sceneggiatura per il cinema scritta nel 1970. A questa idea di teatro Testori era stato e sempre rimarrà fedele. Testori ha trasformato la drammaturgia della messa in scena (del gesto, dell’attore ecc.) in una drammaturgia della parola, perché è la parola (che nel teatro si fa corpo, carne, voce) la sola realtà capace di contenere ed esprimere le verità fondamentali dell’essere umano, anche e soprattutto quelle più scomode e dolorose. Dunque attraversando il teatro di Testori, il volume ora pubblicato ripercorre indirettamente l’intera poetica testoriana nella sua interezza e complessità. Lo fa, con vari contributi affidati ad altrettanti studiosi, osservando l’oggetto dell’indagine da vari punti di vista. Silvia Lilli affronta il tema della deformazione linguistica. «Ogni volta, ed è una necessità fisiologica, devo scoprire un linguaggio che sia strettamente legato al nucleo drammaturgico, poetico, narrativo che ho tra le mani»: così Testori in un’intervista del 1985 alla scrittrice e drammaturga Agnese Grieco. È Fabio Pierangeli a spiegare, nel saggio che apre il volume, il senso profondo dell’inesausta ricerca stilistica testoriana: «Liricità ed espressionismo esasperato convivono a volte negli stessi testi, non per mero esercizio linguistico ma necessario veicolo per esprimere il momento di dolore o di gioia, di angoscia o di straripante sarcasmo verso la tranquillità borghese».
Sullo “sguardo” di Testori si sofferma Carla Boroni, giacché è innegabile che, al di là della parola, il teatro testoriano sia «impregnato di immagini»: «Immagini provenienti dalla storia dell’arte e dal mondo che ci circonda, ma anche (...) immagini mentali elaborate dal dato inconscio, spesso con le caratteristiche del sogno». Silvia Zoppi Garampi ripercorre la vicenda testoriana da L’Arialda (quarta opera dei Segreti di Milano, 1958-1961) al saggio Il ventre del teatro, manifesto programmatico della sua drammaturgia pubblicato sulla rivista “Paragone. Letteratura” (diretta da Roberto Longhi) nel giugno del 1968. Dell’Edipus trattano Simone Giuseppe Flocco e Giuseppe Varone, mentre Andrea Rossi (in dialogo con l’attore Andrea Soffiantini) e Isabella Becherucci (al cui intervento segue una nota di un altro attore, Filippo Lai) affrontano un’analisi di uno dei testi più interessanti di Testori, I Promessi sposi alla prova (1984), opera metateatrale che testimonia il profondo rapporto dello scrittore con Manzoni e il desiderio di “mettere alla prova”, appunto, il mistero del palcoscenico e, insieme, il mistero dell’esistenza. Per Testori si tratta - scrive Becherucci - «di incarnare nel “ventre del suo teatro”» la «parola amore che il pudico Manzoni non fa mai pronunciare al suo protagonista (...) e che invece il tragico di Novate, con finalità chiaramente polemiche, intende rappresentare proprio nella sua passionalità».
Per concludere, Carlo Serafini indaga i molteplici risvolti del “teatro di oratorio” di Testori con la svolta rappresentata dalla trilogia Conversazione con la morte (1978), Interrogatorio a Maria (1979) e Factum est (1981). Il secondo di questi tre drammi fu rappresentato il 29 luglio 1980 a Castel Gandolfo di fronte a Giovanni Paolo II. Papa Wojtyla ringraziò in seguito l’autore per lo «spettacolo così semplice, così ridotto nei suoi elementi visivi e così affascinante per il suo contenuto essenziale, religioso, profondamente teologico, profondamente umano, perenne e insieme, possiamo dire, nostro». L’espressione di una fede inappagata, inquieta, sempre in ricerca - costante di tutta l’ultima fase della drammaturgia testoriana - è il frutto della conversione (o, per meglio dire, di un riavvicinamento alla religione cattolica, che in realtà lo scrittore non aveva mai del tutto abbandonato) vissuta nella seconda metà degli anni Settanta. È stato lo scrittore Ambrogio Borsani, amico dello scrittore e per diversi anni compagno di viaggio sulla tratta Novate-Milano delle Ferrovie Nord, a spiegare molto lucidamente (in un passo riportato nel saggio di Zoppi Garampi) in che cosa era consistita la sua “conversione”: «Egli aveva solo mutato la forma del suo dialogo con Dio. Se prima alzava al cielo imprecazioni blasfeme e rimproveri per lo scempio dell’umana disperazione, ora si rivolgeva a Dio con speranza e gratitudine, tentando un’umana accettazione della morte».

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