venerdì 8 novembre 2019
Il bambino, di origini albanesi, è stato rintracciato in Siria. La mamma lo aveva portato con sé cinque anni fa, strappandolo al padre che vive a Barzago, in provincia di Lecco
Tornato in Italia figlio di una foreign fighter trovato in un campo profughi
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È atterrato a Roma Fiumicino poco dopo le 7 l'aereo di linea dell'Alitalia che da Beirut ha riportato in Italia Alvin. Il bambino ha già potuto riabbracciare il padre e le due sorelle.

E così Alvin Berisha torna a casa. Il bambino era stato rapito nel dicembre del 2014, quando aveva solo 6 anni, dalla madre che lo strappò al padre e alle due sorelle maggiori – di origini albanesi ma che vivono da 20 anni a Barzago, in provincia di Lecco – per portarselo in Siria dove lei aveva deciso di andare a combattere nell’esercito jihadista. Sta bene, ma non parla più l’italiano, si esprime solo in arabo.

Alvin, ora undicenne, si trovava nel campo profughi di Al-Hawl, controllato dai curdi, una struttura che ospita circa 70mila persone, tra vedove e figli di foreign fighters finiti in carcere o morti in battaglia. A riportarlo in patria, dopo averlo trasferito due notti fa in un posto sicuro nel Libano, il Servizio di cooperazione internazionale di polizia (Scip) del ministero dell’Interno guidato dal prefetto Vittorio Rizzi, insieme ai carabinieri del Ros, che hanno condotto le indagini sul sequestro. Localizzazione e prelevamento del bambino dal centro di raccolta siriano, avvenuti anche con l’apporto degli uomini dell’Aise, è stata definita dalle stesse autorità italiane “complessa e rischiosa”, in quanto avvenuta in zona di guerra, sfidando le bombe. Il trasferimento aereo avviene attraverso un corridoio umanitario con il coinvolgimento del consolato di Albania (il bimbo è nato in Italia ma non ha la cittadinanza) e della Croce Rossa italiana e della Mezza Luna.

La mamma, che si era radicalizzata via web nella cittadina brianzola, partì per arruolarsi nel Daesh a Damasco portando con sé l’unico figlio maschio che avrebbe consegnato a un centro di addestramento per soldati-bambini, ribattezzandolo “Yusuf”. A carico della donna era stato emesso dalla Procura antiterrorismo di Milano un mandato di arresto europeo con l’accusa di “sottrazione di minore”. Le forze dell’ordine che hanno eseguito l’intervento per liberare il bambino hanno anche accertato che la donna, Valbona Berisha, è stata uccisa durante un raid aereo. Alvin era incluso, infatti, nell’“area orfani” del campo allestito nei pressi di Al-Hawl, nel nord-est del Paese, dove si trovano 28mila bambini provenienti da oltre 60 nazioni del Medio Oriente.

Quando fu rintracciato, il 25 settembre, il papà Afrim, che in Brianza fa l’operaio in una fabbrica, si recò nella struttura siriana per riabbracciarlo. Lo vide che zoppicava per una ferita a un piede e aveva problemi a un orecchio. Ma allora non poté portarselo via per impedimenti diplomatici.

«Si tratta di una notizia positiva ma è una goccia di sollievo in un oceano di sofferenza – ha commentato il presidente dell’Ifrc e della Cri, Francesco Rocca, che ha accompagnato il bambino dalla Siria al Libano –, chiediamo ai governi nazionali degli stranieri presenti nel campo siriano e a tutte le parti interessate di agire in modo da alleviare la sofferenza di persone molto vulnerabili».

Per favorire la liberazione del piccolo si erano mobilitati cittadini e autorità politiche: una petizione online ha raggiunto le 25mila firme mentre sul Pirellone, il grattacielo di Milano dove ha sede la Regione Lombardia, si è illuminato con la scritta "Alvin free” sulla facciata. Alvin libero oggi, finalmente in Italia.

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